Medici, infermieri e operatori sanitari state facendo la nostra storia
“L’anestesista rianimatore è oggi, contemporaneamente, internista, fisiologo, farmacologo, tecnico elettronico e altro ancora; un tecnologo della medicina che meglio di altri conosce i segreti della terapia intensiva farmacologica ed elettromeccanica.
È un medico in grado non solo di far vivere un individuo in condizioni di morte apparente – immoto, insensibile, incosciente, ibernato, collassato – ma anche di strappare alla morte un individuo in imminente pericolo di vita. È un medico militante alle frontiere della scienza, nella terra di nessuno e di tutti, situata tra la vita e la morte.”
Questa è l’introduzione che l’esimio Professore Cosmacini ha scritto per il mio libro “Manuale di Anestesia – guida pratica in sala operatoria” (Edito da Idelson-Gnocchi, disponibile da pochi giorni in tutte le librerie scientifiche): un omaggio alla figura dell’anestesista; cruciale soprattutto in questa fase storica, caratterizzata dalla pandemia Covid 19, che ha dato risalto alla branca anestesiologica, spesso misconosciuta e non valorizzata quanto altre specialità.
Questo cruciale periodo di crisi sanitaria offre la possibilità di sottolineare quanto poco si sia fatto negli scorsi anni per agevolare l’operato dell’anestesista; che si trova a dover sopperire ad una carenza che non si può più ignorare: troppi giovani laureati in medicina non sono riusciti ad accedere alle scuole di specializzazione per l’esiguità dei posti a disposizione.
Ora assistiamo ad una disperata “chiamata alle armi”: dagli specialisti ormai in pensione, fino agli specializzandi, che sono tutt’ora in prima linea; per sopperire alla carenza di medici di cui si parla ormai da anni.
Già prima dell’avvento del Covid-19, la situazione in ospedale era critica, soprattutto per la carenza di specialisti rianimatori; che risultano fondamentali per qualunque struttura ospedaliera, essendo figure necessarie per il lavoro di molteplici branche mediche, in primis per quelle chirurgiche.
Si è partiti da una situazione sanitaria già carente per arrivare ad una crisi senza precedenti. Sbirciando fuori dall’Italia si può notare (con grande amarezza per chi ama la propria nazione e sceglie di servirla e non abbandonarla) quanto l’operato medico sia valorizzato, anche in termini economici.
Lavorare in un reparto COVID vuol dire indossare visiera, mascherina FFP3, tripli guanti, calzari e tuta non traspirante ad ogni turno di lavoro, avendo l’accortezza di bere, mangiare qualcosa e andare in bagno prima; altrimenti si resta “incastrati” in quei presidi tanto essenziali quanto soffocanti.
Significa passare dalle 6 ore di un turno normale alle 12 in questo modo; facendo attenzione che la tuta non si strappi mentre si maneggiano siringhe e aghi e si cerca di dare conforto ai malati che di noi vedono solo gli occhi.
Pazienti che sono in affanno, con un’età media che si è abbassata nella seconda ondata della pandemia (dai 60 anni della prima fase ai 40 dell’attuale), che non sono malati “normali”; ma che occupano posti in ospedale per un tempo molto più lungo della media, difficile da definire a priori.
Da qui nasce l’esigenza di avere molti più letti a disposizione rispetto alla normalità, associata alla difficoltà di dimettere precocemente pazienti che hanno bisogno di cure intensive; con strategie terapeutiche che non sono diverse da quelle del Marzo scorso.
Il progresso scientifico richiede tempo, che purtroppo non abbiamo avuto! Le sostanziali differenze tra la prima e la seconda ondata non possono essere fatte in termini terapeutici; ma in termini epidemiologici poiché ora possiamo studiare quanto “corre” il virus, utilizzando i dati che abbiamo imparato ad interpretare.
La differenza sostanziale tra prima e seconda ondata, all’interno degli ospedali, sta nel fatto che a Marzo si è rallentata molto l’attività ordinaria non urgente, dando giusta priorità ai malati Covid: la conseguenza naturale è stata un “accumulo” di tutto il lavoro sanitario ordinario e di molte operazioni chirurgiche che, terminata la prima ondata, si è ricominciato a riprendere.
Ad oggi, infatti ci ritroviamo a gestire l’attività routinaria che è diventata imponente, oltre ai malati Covid, che sono in costante aumento. Da aggiungere a queste problematiche, bisogna considerare la pur bassa, ma sempre presente; percentuale di medici ed infermieri che il Covid lo contraggono, nonostante tutti i presidi in uso.
Analizzando nel dettaglio l’andamento delle ospedalizzazioni e delle quarantene, ricaviamo che: l’età media dei malati di Sars-Cov2 si è notevolmente abbassata e che; nonostante tutte le misure messe in atto per contrastare la diffusione del virus, esso è presente e che basta davvero poco per innalzare la pressione sugli ospedali.
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