Disagio nelle carceri: un detenuto su quattro è sotto psicofarmaci

Lo evidenzia una ricerca condotta dall’associazione Antigone. Ogni recluso in terapia ha mediamente a disposizione uno psichiatra per quattro minuti a settimana.

II dato secco è impressionante: il 27% dei detenuti italiani viene sottoposto a terapia psichiatrica, percentuale che, come tutte le medie statistiche, oscilla fra l’incredibile 97% della casa di reclusione di Spoleto e il minuscolo 0,6% di Volterra. L’associazione Antigone, con la sua ricerca condotta su oltre 60 istituti detentivi su 190, alza il velo sull’ennesima, grave espressione di disagio del mondo carcerario italiano. Forme di sofferenza che spesso sfociano in aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, atti di autolesionismo dei reclusi e suicidi: nel 2018 si sono tolti la vita 61 detenuti, il 33% in più rispetto al 2015 (quando erano stati 39). Ma è soprattutto il divario con quanto accade fuori dal carcere a dare la misura della drammaticità della situazione: il tasso di suicidi calcolato su 10mila persone nel mondo libero è sotto 1’1%, mentre dietro le sbarre un anno fa è balzato al 10,4%. Il numero del 2019 aggiornato allo scorso 7 dicembre parla di 46 episodi. Un’emergenza così acuta, quella dei problemi mentali e delle loro conseguenze sulla vita all’interno delle carceri, che pochi mesi fa il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ha scritto al Governo e ad altri organismi interessati una lettera dal titolo inequivocabile: “Interventi urgenti in ordine all’acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico”. Vi si legge: “Occorre dedicare ogni sforzo all’implementazione dell’assistenza psichiatrica negli istituti, per le valutazioni delle persone detenute e per i contatti con i dipartimenti di salute mentale del territorio, ai fini della continuità terapeutica al ritorno in libertà”. Vanno promossi “accordi su tutto il territorio nazionale fra direzioni penitenziarie e Asi” e, soprattutto, per l’assistenza ai detenuti malati, vanno rafforzati “i servizi psicologici e psichiatrici”. Già, perché allo stato attuale, sempre secondo Antigone, l’assistenza è chiaramente insufficiente se, ogni 100 detenuti, la presenza settimanale media degli psicologi è pari a 11 ore e mezza. Dato che precipita a 7 ore quando si parla di psichiatri. Sette ore alla settimana per cento persone significa che ogni recluso ha uno specialista a sua disposizione per quattro minuti e venti secondi, quanto basta a malapena a un medico per fare una domanda, avere una risposta e prescrivere un medicinale. Il che fa sorgere il dubbio ragionevole che un ricorso così generalizzato agli psicofarmaci sia spesso la risposta impropria a problemi di altro genere: «La situazione di istituti come quello di Spoleto, dove le persone in terapia psichiatrica superano il 97% del totale e le ore passate dagli psichiatri con cento di loro ogni settimana sono 2 e 21 minuti, ci dice che non si fa null’altro che prescrivere medicinali, trascurando qualsiasi altra forma di intervento, il che vuoi dire che diventa anche uno strumento di controllo», sostiene Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone. Gli ansiolitici sono i medicinali cui si ricorre più spesso e con cui si interviene su detenuti nelle attività rieducative, scolastiche e lavorative ridotte al lumicino: «Occorrerebbe distinguere il disagio mentale vero dal disagio sociale legato alla famiglia di provenienza e alla povertà dei detenuti – aggiunge Miravalle –. Molti dei casi trattati come psichiatrici hanno proprio di questi problemi. D’altra parte, chi non impazzirebbe a passare venti ore al giorno di ozio penitenziario?». Il contesto di sovraffollamento cronico – 123,5% il dato medio – ovviamente non aiuta, così come non aiuta la scarsità del servizio assicurato dalle Asl in certe realtà: «A Foggia, dove ci sono oltre 600 detenuti, non c’è neanche uno psicologo e gli psichiatri sono presenti per tre ore alla settimana per cento persone»
. Felice Nava, direttore dell’Unità operativa di sanità penitenziari Auls 6 di Padova, pensando all’enormità del dato di più di un detenuto su quattro in cura con psicofarmaci, indica un equivoco di fondo: «La prima distinzione da fare è fra patologia psichiatrica e disagio psichico: il reo folle ha le caratteristiche del soggetto malato per cui è in cura da psichiatri, ma non va confuso con chi, non avendo una patologia, esprime un disagio che si traduce in autolesionismo o in un tentativo di suicidio. Voglio dire che le percentuali dei soggetti veramente psicotici sono le stesse sia fuori che dentro il carcere, ma in prigione c’è il disagio psichico che si manifesta molto di più perché quello è un luogo estremo. È la mancanza di attività rieducative e lavoro, propedeutiche alla riabilitazione, che induce questo problema». L’impennata delle terapie psichiatriche degli ultimi anni, con ricorso indiscriminato alle benzodiazepine («di cui in molti casi si abusa, come avviene col Rivotril», aggiunge Nava), è anche legata a un evento importante per il nostro sistema carcerario: la fine degli Opg, gli ex manicomi criminali che ospitavano circa 1.500 persone. «Da quando, cinque anni fa, sono cominciati a diminuire gli invii di detenuti agli ospedali psichiatrici giudiziari in vista della loro chiusura, nelle carceri hanno osservato l’aumento di problematiche mentali – evidenzia Miravalle –. Un aumento che è esploso quando tutti gli Opg hanno cessato di esistere, fra il 2016e il 2017». Nel frattempo venivano istituite le Rems (capienza complessiva di 600 posti su 32 centri), le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza gestite dai servizi sanitari territoriali e concepite per accogliere gli ex detenuti degli Opg, oltre agli autori di reati giudicati incapaci di intendere e di volere. Tutta gente che un tempo finiva dimenticata nei manicomi criminali. La legge 81 del 2014 ha stabilito anche l’impossibilità, per quanti si ammalano di patologie mentali all’interno di un carcere dopo la condanna, di essere trasferiti nelle Rems: è in prigione che devono essere curati, al pari di qualsiasi altro paziente, e sono i medici delle Asl a dover farsene carico. «L’intento del legislatore era proprio quello di evitare che anche le Rems, come avveniva una volta per gli Opg, diventassero un luogo dove scaricare i casi difficili», commenta Miravalle. Sulla carta tutto bene, peccato che il meccanismo ben presto si sia inceppato per la latitanza dei servizi psichiatrici territoriali, al punto che, riporta il coordinatore di Antigone, «oggi, parlando con qualsiasi direttore di carcere, fra le problematiche più rilevanti, ci sono i detenuti con problemi mentali». Al Dap confermano le criticità, parlano di “forte preoccupazione” e mettono in evidenza la “difficoltà di dialogo con una pluralità di soggetti”, cioè le Asl delle varie città, che si regolano ognuna in maniera diversa. Denunciano anche il “malessere dei detenuti, manifestato con aggressioni al personale” e ricordano che “non sempre i nostri appelli (ai servizi sanitari territoriali, ndr) alla collaborazione, a parte alcune realtà, vengono seguiti”. Ne fanno le spese i detenuti malati, soprattutto ora, durante le feste. Alcuni fra i 30 reparti psichiatrici attivi in altrettante carceri italiane sotto le feste dovranno chiudere per mancanza di assistenza, ma i pazienti resteranno lì, in prigione, con i loro disturbi. Quei reparti ospitano in tutto 300 persone. In più ci sono i malati in lista d’attesa, perché tutta l’Italia è paese, al di qua e al di là delle sbarre. Redazione Nurse Times Fonte: La Stampa  
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