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Empatia confinata: noi, infermieri nel carcere

Le testimonianze di tre colleghi intervenuti all’incontro organizzato da Opi Firenze-Pistoia durante il Forum Risk Management.

Il ruolo dell’infermiere nelle carceri. Questo il tema trattato durante un incontro organizzato da Opi Firenze-Pistoia e tenuto nei giorni scorsi al Forum Risk Management di Firenze. A parlare di “Empatia confinata: la realtà dell’infermiere penitenziario” sono stati Luis Lujan, infermiere nel reparto giudiziario del carcere di Sollicciano, Maria Stella Barbati, infermiera nel reparto accoglienza dello stesso carcere, e Caterina Torcini, coordinatrice infermieristica nelle carceri di Sollicciano, Mario Gozzini e Meucci.

«Non esiste una formazione specifica che insegni agli infermieri come operare nel contesto particolare del carcere – ha spiegato Luis Lujan –. Ho trent’anni e sono infermiere in un carcere da cinque anni. Sono diverse le problematiche ci ritroviamo ad affrontare: dalle lunghe distanze, dovute ai corridoi che separano l’infermeria da alcune zone del carcere dove potrebbero trovarsi i pazienti da soccorrere, agli interventi infermieristici, che vanno sempre coordinati con la polizia penitenziaria per ragioni di sicurezza. Ci sono poi delle misure di sicurezza che vanno rispettate. Per esempio il detenuto non deve conoscere la nostra identità: per loro noi siamo semplicemente “infermiere” e “infermiera”. Questo per evitare che si entri in confidenza o si crei un eccessivo coinvolgimento emotivo. Per quanto riguarda le visite, da qualche anno possono avvenire con la vigilanza a vista dall’esterno della stanza dove si trovano medico e paziente, tranne in casi di particolare pericolo o agitazione».

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Maria Stella Barbati lavora come infermiera dal 2012 a Sollicciano. «In carcere – racconta – l’infermiere ha a che fare con pazienti detenuti di varie etnie e culture, con diversi tipi di quadri clinici. Spesso ci si ritrova a prendersi cura della persona che ha attuato gesti di autolesionismo, soprattutto per protesta. Questo perché la voglia di libertà supera quella di stare bene in salute. I detenuti, talvolta, tendono a simulare un malessere per uscire dal carcere. Il carcere di Sollicciano è dotato di un cardiolink, un elettrocardiografo portatile in grado di registrare un ECG. L’elettrocardiogramma registrato viene trasmesso tramite accoppiamento acustico con un normale telefono a una centrale operativa dove operano medici specializzati in cardiologia, che in tempi rapidissimi refertano il tracciato stesso, inviandoci il tutto via mail.Questo procedimento serve a limitare le uscite dei detenuti dal carcere. Inoltre, in carcere l’infermiere lavora attraverso protocolli e istruzioni operative aziendali (Asl Centro), ad esempio per i diabetici o per le malattie infettive. In più, dato che non possiamo conoscere tutte le lingue parlate dai detenuti, ci viene in soccorso il servizio di mediazione culturale telefonico attivo h24, che ci permette di avere in tempo reale una traduzione»

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Aggiunge Caterina Torcini: «Quella del carcere è una realtà che non si può immaginare finché non ci si lavora. Il 2008 ha segnato un momento importante per gli infermieri che operano in questo ambiente, ma anche per i detenuti stessi. È infatti avvenuto il passaggio della gestione per la parte sanitaria nelle carceri dal ministero della Giustizia al ministero della Salute. Questo vuole dire che, se in passato c’erano agenti infermieri che vedevano principalmente il paziente come detenuto, oggi i pazienti in carcere sono effettivamente tali, seguiti nei loro problemi di salute da personale esclusivamente sanitario e multiprofessionale».

Redazione Nurse Times

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