Freddo e alta quota: nemici di cuore e cervello

In montagna, con temperature sono rigide e aria rarefatta, aumenta il rischio di problemi cardiaci e non solo.

Freddo e alta quota ci costringono ad ascoltare contemporaneamente cuore e cervello. La vasocostrizione da termometro polare può provocare la rottura delle placche aterosclerotiche. E ancora più attenzione dobbiamo dedicarla sia al cuore che al cervello se si decide di andare in montagna. Il pericolo di infarto, infatti, può crescere fino al 34%. Sì, perché il mix di freddo e affaticamento fa salire la pressione arteriosa e il battito cardiaco, aggravando in modo preoccupante il rischio di attacco.

«L’eventualità di un infarto – spiega Ciro Indolfi, presidente della Società italiana di cardiologia (SIC) – è consistente, specie se si sceglie di fare attività fisica al mattino, tra le 6 e le 10, quando la probabilità di eventi cardiovascolari è massima nell’arco della giornata. Non bisogna dimenticare che anche le infezioni respiratorie possono contribuire ad aggravare la condizione. Nei giorni successivi a tosse, raffreddore o influenza, la probabilità di un attacco di cuore può salire fino a sei volte, soprattutto nei pazienti più fragili».

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Non solo il freddo, ma anche l’alta quota va presa in considerazione prima di prenotare un soggiorno in montagna, se si è vulnerabili dal punto di vita cardiovascolare: a partire dai 2.500 metri di altitudine il corpo è sottoposto a uno sforzo maggiore. L’aria, infatti, contiene meno ossigeno e causa accelerazione della frequenza respiratoria e aumento della pressione sanguigna. Chi soffre di coronaropatia ricordi che questa malattia comporta un restringimento delle coronarie, e quindi al cuore arriva meno ossigeno. Con coronaropatie lievi è possibile spingersi anche fino ai 4mila metri, con patologie di media portata è opportuno fermarsi a quota 2mila. In caso di malattie coronariche gravi, il paziente deve rinunciare alle escursioni in montagna.

«I farmaci contro l’ipertensione – afferma Hermann Brugger, direttore dell’Istituto per la medicina d’emergenza in montagna presso il centro studi Eurac Research a Bolzano – funzionano spesso come diuretici, eliminano sali e acqua dal sangue. Questo ne riduce il volume e, di conseguenza, la pressione sanguigna scende. A chi soffre di ipertensione si raccomanda di controllare i valori prima e durante la permanenza in montagna».

Anche in caso di ictus o Tia (attacco ischemico transitorio) la montagna non è tabù, ma bisogna stare molto attenti poiché parliamo di patologie che si caratterizzano per il ridotto apporto di ossigeno al tessuto cerebrale. Un organismo sano può mettere in campo tutti i meccanismi necessari a un adattamento anche rapido, ma per soggetti con patologie la carenza di ossigeno può essere problematica.

II consiglio di A.L.I.Ce. Italia Onlus (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale) è di non superare i 1.500 nei primi tre mesi successivi all’ictus e di non andare oltre i 2mila tra il quarto e il sesto mese. Trascorso questo periodo, è possibile pianificare gite anche più complesse. «Evitare le giornate troppo fredde, controllare bene i fattori di rischio, assumere le medicine prescritte, alimentarsi e idratarsi», raccomanda Guido Giardini, responsabile del Centro di medicina e neurologia di montagna dell’Ospedale Parini, in Valle d’Aosta.

Redazione Nurse Times

Fonte: Il Messaggero

 

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