Infermieri

Gli infermieri e la grande sanatoria degli anni Ottanta

Vi proponiamo le pillole di storia scritte da Francesco Falli, nostro nuovo collaboratore.

L’attenzione del mondo sanitario italiano è stata richiamata dalle norme di deroga contenute nella Legge di stabilità, definite da molti come una “sanatoria”. Questa deroga dovrebbe consentire a circa ventimila individui di continuare a lavorare, vista la loro precedente impossibilità di iscrizione al nuovo Ordine professionale “multialbo”  (circostanza che li porterebbe, senza alternative, al licenziamento). Si tratta in massima parte (ma non solo) di massofisioterapisti ed educatori professionali di ormai lontana formazione, che non hanno mai avuto i ‘’decreti di equipollenza’’ per certificare quella che è stata, appunto, una modalità formativa piuttosto diversa da quella attuale.

Sanatoria: Termine che spesso ha un significato negativo nel nostro Paese, così come l’altro termine “condono”. Sono entrambi indicativi di un percorso agevolato, di uno sconto per chi ha, in qualche modo, non rispettato le canoniche strade obbligate, con il risultato che chi queste strade le ha percorse per intero si sente ingannato, e un po’ preso in giro.

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Lasciando l’attualità, possiamo usare questa notizia per riportare alla luce un particolare passaggio normativo che ebbe ricadute piuttosto forti nel mondo dell’infermieristica italiana di ben 38 anni fa. Con testimoni che, grazie alla Legge Fornero, sono ancora in servizio, e che ricordano piuttosto malvolentieri quanto avvenne in quel particolare momento storico.

Siamo alla fine dei turbolenti e socialmente complessi anni Settanta del XX secolo. In Italia ci sono molte frizioni sociali, serve una speciale legge contro il terrorismo (a gennaio è ucciso il sindacalista Guido Rossa dalle Brigate Rosse). Sullo scenario internazionale, in Iran viene deposto lo scià Reza Pahlavi e ha inizio il potere dell’ayatollah Khomeini.

Nel mondo del nursing italiano, in pochi anni la qualità della formazione è cresciuta: dal 1973 le scuole per ‘’infermieri professionali’’ diventano triennali, in accordo con le indicazioni europee stabilite nel Rapporto di Strasburgo, recepite nel nostro Paese con la legge del 15/11/1973 n. 795 (Ratifica dell’accordo di Strasburgo sulla Formazione dell’Infermiere del 25/10/1967).

A dare inoltre una svolta alla costruzione della figura moderna fu la cessazione dell’internato che, attivo fino al 1971 con la scuola convitto (durata: due anni), comportava anche una “barriera di genere”, come oggi definiremmo l’esclusione dei maschi dal percorso di formazione. Con la cessazione del “convitto” (le allieve infermiere del tempo erano tenute a dormire nelle strutture scolastico-ospedaliere) i corsi si aprirono ai maschi, dunque. Il D.P.R. 867 del 13/10/1975 modificò poi l’ordinamento delle scuole professionali per gli infermieri, ammodernando le discipline e spingendo molto sul piano della tecnica e del tirocinio pratico, non trascurando la componente teorica.

Torniamo ai maschi. In realtà nelle corsie ospedaliere italiane erano molti i maschi in servizio con funzioni di infermiere, ma erano infermieri “generici”, formati con corsi della durata di nove mesi. Lo scenario, alla fine dei Settanta, era il seguente: tanti infermieri generici (uomini e donne), che in molti casi tiravano avanti i reparti insieme a pochi professionali, ma questi erano comunque in costante aumento di numero poiché ogni “ospedale provinciale” aveva la sua scuola di formazione (e in qualche caso anche gli “ospedali di zona” di città più piccole).

Le attuali regole su bilanci da rispettare con grande attenzione, il blocco del turn over, le pensioni a età avanzata erano inimmaginabili a quel tempo, e quindi ogni anno dalle scuole come quella della mia città (La Spezia) i circa 15-20 “diplomati infermieri professionali” uscivano dal corso ai primi di luglio, in coincidente necessità con le sostituzioni estive. E il primo contrattino di tre mesi a incarico veniva stipulato subito, di norma il giorno dopo l’esame di Stato per il rilascio del diploma abilitante.

La “stabilizzazione” era questione di (poco) tempo: un concorso sarebbe arrivato piuttosto presto, e in zona. I numeri del concorso erano poi un invito alla partecipazione (ne ricordo uno a Pontremoli: cinque posti per cinque partecipanti). In ogni caso, queste poche unità arrivavano a rinforzare gli organici con l’inevitabile scadenza del percorso formativo; quindi numeri “contratti”, che lasciavano nelle corsie i generici in assoluta maggioranza.

I sindacati del tempo erano piuttosto potenti e ascoltati, e molto connessi al mondo della politica. Si può notare che il secondo Codice deontologico nella storia dell’infermiere , quello che al tempo era in vigore dal 1977 (il primo era stato emanato nel 1960), ha proprio cura di sottolineare il rapporto col mondo sindacale, in questa frase : “L’infermiere, nel pieno rispetto dei diritti del malato, si avvale dei propri diritti sindacali”.

Da una stima non precisissima, ma molto prossima al dato reale, a inizio 1980 la popolazione infermieristica era formata da generici per otto elementi su dieci. È inevitabile immaginare che questo rapporto riguardasse anche l’appartenenza alle sigle sindacali, e da queste scattò la richiesta alla politica di una “sanatoria” che favorisse la crescita (dello stipendio in primo luogo, inferiore del 15% circa) di chi lavorava con un titolo e una retribuzione inferiore, ma svolgendo di fatto le stesse mansioni dei “superiori” colleghi.  “Mansione” è la parola giusta, visto che nel 1980 era piuttosto giovane la emissione del DPR 225 del 1974, o “mansionario”.

E la politica dei sindacati del tempo era quella “dell’infermiere unico e polivalente”, buono per tutte le stagioni. Vennero chiuse le scuole di specializzazione, che avevano prodotto con formazione vera, concreta, d’aula e sul campo; piccoli drappelli di infermieri strumentisti e specializzati in anestesia e rianimazione o in dialisi; scuole vere e attive per molto tempo, che avevano avuto riconoscimenti anche contrattuali. Infatti , quando l’allora Ccnl indicava i lavoratori per livelli in numeri romani, si indicavano al livello V l’infermiere generico, al livello VI l’infermiere professionale e al livello VII il caposala e l’infermiere professionale specializzato, figura prevista e normata dal già citato DPR 225 del 1974. Tutto molto regolare, dunque, ma forse troppo “professionale” per l’evidente volontà di livellare tutto e tutti, che in quel periodo era assolutamente la mentalità corrente e predominante.

La sola richiesta che non passò fu quella dell’abrogazione della figura del caposala. Per il resto tutto diventò in fretta realtà. Ma per portare i generici al livello dei professionali c’erano alcune barriere da superare. Prima di tutto, per diventare infermiere professionale erano necessari “almeno dieci anni di formazione scolastica”. Quindi era necessario ottenere almeno l’ammissione alla terza superiore per essere ammessi alle scuole regionali. Ma i generici erano quasi tutti dotati della sola licenza media, che era il requisito minimo per accedere a quei corsi (che sarebbero proseguiti, per la cronaca, fino ai primissimi anni Novanta; corsi della durata di nove mesi, svolti in ormai poche realtà ospedaliere nazionali).

La politica andò loro in soccorso con la Legge 243 del 1980: “Straordinaria riqualificazione professionale degli infermieri generici e degli infermieri psichiatrici”. Con questa norma venne derogato il percorso minimo di studio richiesto “agli altri”, e il tirocinio pratico che era “prelevato” dall’attività svolta sul campo, al lavoro. Ai generici venne solo chiesto di effettuare delle ore formative nelle aule delle scuole “per infermieri professionali”, dove il gap della formazione teorica avrebbe dovuto essere colmato da questo percorso di aggiornamento.

I corsi per la riconversione di questi generici durarono per cinque anni. In poco più di un anno e mezzo di frequenza i generici diventarono professionali. A suggello di tutta l’operazione il precedente rapporto si invertì, e a quel punto (intorno al 1985) i professionali in servizio erano ormai il 90% degli infermieri totali. I generici rimasti tali erano solo alcuni, piuttosto pochi, che per motivi stringenti (tipo “altri impegni”) non erano in grado di frequentare le giornate di formazione teorica, che cadevano nei giorni di riposo o di turno libero.

A questo riguardo sembra interessante citare un pensiero a cura della Scuola superiore dell’economia e delle finanze, portatore di un parere decisamente meno influenzato dall’autore di queste righe: “Gli anni Ottanta ereditano il lungo, acceso e controverso dibattito politico, sindacale e professionale sul concetto di infermiere unico e polivalente. Il confronto poggia sul principio, dimostratosi poi non così vero, che avere nei servizi tutti infermieri professionali avrebbe automaticamente determinato un aumento della qualità dell’assistenza…”.

Corsi e ricorsi della storia, eccoli qua. E questo spiega anche perché coloro che hanno i capelli più grigi si sono molto preoccupati, una volta sentito il primo lancio di agenzia su questa “sanatoria”, che riconosce motivi molto diversi da quella del 1980. Riguarda poche persone nel confronto fra le due epoche, ma spinge alle stesse riflessioni di allora coloro che oggi, con un percorso formativo completo, sono valutati allo stesso modo di chi il percorso non lo ha effettuato nei termini indicati dalle regole del gioco.

Francesco Falli

 

Redazione Nurse Times

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