Il fenomeno camice-corazza e il ruolo del professionista infermiere.

Proponiamo un elaborato a cura di Cosimo Della Pietà (professore a contratto Cdl Infermieristica, Università di Bari, Polo Jonico, Michela Del Nigro (studentessa Cdl Infermieristica, Università di Bari, Polo Jonico), Anna Tosi (studentessa Cdl Infermieristica, Università di Bari, Polo Jonico).

Abstract Il seguente elaborato  si propone di presentare una sintesi delle ripercussioni che i Professionisti Infermieri, in quanto facenti parte delle “helping professions”, possono presentare nella sfera psicologica, venendo a contatto con più persone che portano con sè la loro storia, le loro emozioni, il loro vissuto e i loro problemi. Introduzione Nel momento in cui l’infermiere si trova a rispondere ad un bisogno, questo non può limitarsi alla mera esecuzione di una specifica prestazione. Le Tecnical Skills risultano fondamentali, ma non sono sufficienti, infatti sono necessarie non Tecnical Skills, che comprendono abilità sociali che permettano un’adeguata relazione con l’altro e abilità che rendano l’infermiere un ‘buon infermiere’. Essendo  una professione che eroga assistenza specializzata, in risposta ad un bisogno di aiuto e di salute, l’infermiere si trova ad essere la figura principale con cui il paziente si identifica e questo espone maggiormente il professionista Infermiere alla vicinanza emotiva ed al contatto con la sofferenza. Sempre più la professione infermieristica ha preso coscienza dell’importanza della psicologia nel relazionarsi con i malati. Nella pratica quotidiana dell’assistenza viene quindi messo in primo piano la relazione, il dialogo e il rapporto con il paziente, risultando inconcepibile il contrario. Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche 2019, art. 17 – Rapporto con la persona assistita nel percorso di cura. Nel processo di cura l’infermiere valorizza e accoglie il contributo della persona, il suo punto di vista e le sue emozioni e facilita l’espressione della sofferenza. L’infermiere informa, coinvolge, educa e supporta l’interessato […]. Psicologia e relativismo Partendo dai diversi pensieri che si sono sviluppati attorno al metaparadigma del Nursing, spicca quello di Hildegard Peplau, psicologa nata in America nel 1909, che grazie alla sua esperienza in ambito dell’assistenza infermieristica psichiatrica, ha coniato il termine “psychodynamic nursing” incentrato sulla relazione interpersonale infermiere-paziente. Questa relazione è fondamentale per ottenere una funzionale assistenza infermieristica che riesca in maniera efficace ad identificare e strutturare il problema. Se inizialmente il professionista è solo un estraneo, questo rapporto è poi destinato a crescere passando per l’identificazione del paziente con l’infermiere, che si occuperà di fornire tutti gli strumenti adeguati  per permettere all’interessato di raggiungere la consapevolezza necessaria a soddisfare i propri bisogni per raggiungere il proprio benessere personale. La stessa Martha Roger, fautrice del relativismo in campo infermieristico, sostiene che il nursing è una scienza umanitaria basata sulla compassione e finalizzata a favorire e mantenere la salute, prevenire la malattia, assistere e riabilitare i malati e i disabili. A seguito di una lettura più attenta, secondo la teoria dei sistemi aperti, comprendiamo come consideri l’individuo un sistema aperto che interagisce con gli altri sistemi, attraverso un continuo scambio di energia e materia, evolvendo in modo irreversibile. Da questo possiamo dedurre come la relazione fra due persone porti a permanenti cambiamenti reciproci. È in questa interazione che il vissuto e le esperienze di vita che hanno plasmato l’infermiere fino a quel momento si intrecciano con quelle del paziente. Ma qual è la ripercussione di questo contatto persistente con le problematiche dell’assistito sul benessere dell’infermiere? In che maniera l’infermiere riesce a rimanere in equilibrio nel contatto con situazioni di dolore? Riesce veramente ad ottenere un distacco oppure riesce a controllarlo e/o nasconderlo? Se queste dinamiche sono mal gestite, le  conseguenze nei professionisti che erogano assistenza, sono uno stato di malessere generale, che determina ripercussioni  sul benessere nel contesto lavorativo. Stress o burnout? La reazione spontanea a problemi lavorativi è comunemente chiamata stress. Se però questo è il risultato di uno squilibrio fra risorse disponibili e le richieste dell’ambiente esterno, così non è per il burnout che rappresenta invece un insuccesso nel processo di adattamento, accompagnato a un malfunzionamento cronico dell’organizzazione lavorativa. I due fenomeni però non hanno una relazione biunivoca infatti, se il burnout presuppone lo stress il contrario invece non risulta essere vero. Come risposta ad un turbamento dell’equilibrio, il nostro corpo reagisce con lo stress, che, cronicizzandosi, arriva a danneggiare le capacità di adattamento generali causando il possibile fenomeno del burnout. Questo disagio psicofisico è stato descritto inizialmente da C. Maslach dopo aver osservato, negli anni ‘70, una sintomatologia comune fra alcuni operatori sanitari di un reparto di igiene mentale. Coloro che svolgono le cosiddette “helping professions” e tutti coloro che vengono quotidianamente a contatto con realtà di disagio, sofferenza ed in cui il rapporto con l’utente è di centrale importanza, sembrano più soggetti a presentare questo disturbo. “Burnout è una sindrome da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale che può verificarsi in soggetti che svolgono un determinato tipo di lavoro” (Maslach e Leiter, 1997). Ne consegue un lento logoramento psicofisico causato da una mancanza di energie e di capacità di sostenere e scaricare lo stress accumulato in questi ambienti. Le conseguenze del burnout sono:
  • Esaurimento emotivo: mancanza dell’energia necessaria per affrontare la realtà quotidiana, con sentimenti di apatia e distacco emotivo nei confronti del lavoro;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento di ostilità, che coinvolge primariamente la relazione professionale d’aiuto, vissuta con fastidio, freddezza, cinismo.
  • Ridotta realizzazione professionale: rappresenta la dimensione autoriflessiva del burnout, in cui l’operatore avverte forti sensazioni d’inadeguatezza, d’insuccesso professionale, d’incompetenza nella relazione con l’utente. Questo si manifesterà con un drastico abbassamento dell’autostima e della motivazione.
L’infermiere cerca di attuare strategie che riducano l’impatto emotivo con le problematiche del paziente che gli studiosi hanno diviso in due modalità:
  • Surface acting (di superficie): tentativo di mascheramento dell’emozione con cambiamento del linguaggio non verbale, come espressione del viso, postura e tono di voce;
  • Deep acting (profonda): prevenzione dell’emozione negativa, e quindi non appropriata, rendendola più adeguata al contesto.
La prima risulta essere quella che viene espressa con maggiore frequenza. Al disagio psicologico e relazionale si aggiungono generalmente problematiche fisiche come malessere generale, astenia, cefalea e disturbi del sonno come insonnia o ipersonnia. Possiamo quindi generalizzare dicendo che questa sindrome deriva dall’incapacità dell’individuo di far fronte alle richieste professionali che gli vengono poste. Come misurarlo?
La scala più frequentemente utilizzata è la Malsach Burnout Inventory (MBI) in cui vengono prese in considerazione le 3 dimensioni indipendenti sopracitate: Esaurimento emotivo (EE), Depersonalizzazione (DP) e Realizzazione Professionale (RP). In totale l’individuo viene sottoposto a 22 items (domande) a cui deve rispondere attribuendo un punteggio da 0 (mai) a 6 (ogni giorno). La somma dei vari punteggi divisi per singole aree, determinano poi una valutazione dello stato psicofisico del soggetto. Reparti più a rischio? Possiamo supporre che, rivolgendoci principalmente alle “helping professions”, sia più elevato il rischio di sviluppare burnout in alcuni reparti, in quanto, sono presenti particolari condizioni che non troviamo in altri, come ad esempio l’oncologia, in cui l’infermiere si trova a dover far fronte ad un pesantissimo carico emotivo condividendo le paure ed angosce della persona assistita, cercando però di non lasciarsi travolgere dal dolore, e la pediatria, dove la piccola età di coloro che vengono ad essere i soggetti dell’assistenza, è sicuramente il fattore discriminante. Studi che dimostrano la prevalenza del burnout in ambito oncologico furono pubblicati nel 2008. Essi avevano utilizzato come strumento di valutazione il Maslach Burnout Inventory (MBI). Il risultato fu che una percentuale compresa fra 8% e il 51% presentava punteggi elevati in almeno una delle tre scale del questionario. Ricerche successive condotte in vari paesi occidentali hanno riportato stime di burnout fra gli operatori oncologici in linea con i dati ricavati, mostrando nel complesso che almeno ⅓ del personale mostra una sindrome da burnout. Il più ampio studio italiano sull’argomento è una ricerca multicentrica che ha coinvolto 440 soggetti, tra medici e infermieri, appartenenti a 9 diversi centri di oncoematologia sparsi nel territorio italiano. I risultati hanno mostrato, in linea con le percentuali di altri paesi occidentali, i seguenti valori medi tra le due categorie professionali: esaurimento emotivo 32%; depersonalizzazione 26,7% e ridotta realizzazione personale 13,9%. Non sono state individuate differenze tra medici e infermieri. La maggiori fonti di stress erano legati all’ambiente lavorativo e alla sua organizzazione che portava ad un eccessivo carico di lavoro. Il fenomeno camice-corazza Alcuni studi evidenziano inoltre una correlazione negativa tra burnout ed empatia, suggerendo una relazione diretta tra queste due condizioni psicologiche, confermando quindi che il burnout è connotato da un declino della capacità empatica. Accumulando anni di esperienza, il coinvolgimento emotivo, se non ben gestito, raggiunge un livello così elevato che il professionista Infermiere è portato, inavvertitamente, ad avere una involuzione di quel sentimento di empatia che ha determinato la scelta della professione, portandolo ad avere un atteggiamento indifferente e distaccato all’interno del proprio camice-corazza. Quindi, conseguenza del burnout nei professionisti infermieri è la perdita di identificazione positiva del ruolo professionale. Il camice è vissuto come una trappola (corazza / prigione appunto), dove il ruolo professionale intrappola la soggettività del professionista. Strategie di prevenzione Nel corso degli anni sono state proposte numerose  strategie per fronteggiare questa problematica, che però non hanno fondamenta scientifiche:
  • Condurre uno stile di vita sano: permetterebbe di riuscire a far maggiormente fronte allo stress;
  • Ricorrere a tecniche di rilassamento;
  • Accresce grado di autoconsapevolezza prendendo conscienza delle proprie emozioni per poterle gestirle al meglio;
  • Rafforzare le abilità di coping;
  • Accrescere supporto sociale bilanciando al meglio il rapporto vita lavorativa-vita privata.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inoltre riconosciuto ufficialmente il Burnout come sindrome occupazionale ed è stata inserita nella Classificazione ICD, ovvero nella Classificazione Internazionale delle Malattie e dei problemi correlati, che uscirà aggiornata nel  gennaio del 2022. Conclusioni Evidenze quindi dimostrano che il personale sanitario, non può essere per natura, indifferente alle sofferenze altrui, riportando dopo lunghi periodi, egli stesso, ripercussioni sia fisiche che psicologiche e morali. Occorre quindi non sottovalutare l’impatto che certe condizioni possono determinare sul professionista dell’assistenziale ed educare a gestirle in modo efficace. Inoltre non considerare questo fattore, comporta inevitabilmente conseguenze negative anche sulla qualità dell’assistenza e delle cure erogate. Valida strategie per fronteggiare queste situazioni possono essere: la rilevazione dell’entità del fenomeno nelle organizzazioni, la diffusione campagne di sensibilizzazione sull’argomento, implementazione di progetti formativi, che mirano ad aumentare nei professionisti sanitari le Non Techical Skills, ad integrazione e supporto delle proprie competenze tecniche professionali. E’ necessario quindi studiare meglio questo fenomeno per individuare elementi disfunzionali per favorire il benessere, cambiando la prospettiva e riconoscendo l’importanza e l’urgenza di prendersi cura di chi cura. Bibliografia AA.VV. (1984). Disadattamento al lavoro. Ricerca socio sanitaria, Ist. Italiano Med. Sociale, Roma. 1) Balint M. (1961). Medico, paziente, malattia, Feltrinelli, Milano. 2) Bateson G. (2000). Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano. 3) Bion W.R. (1996). Esperienze nei gruppi, Armando Editore. 4) Boccalon P. Boccalon R. e al. (2002a). Percorso formativo e prevenzione dello Stress occupazionale: indagine comparata sugli allievi di due Corsi di Laurea in Scienze Infermieristiche, 65° Congresso SIMLII, Taormina. 5) Boccalon P. Bigazzi E. e al. (2002 b). Stress e burnout tra gli operatori sanitari: primi risultati di un’indagine sul personale di in un’Azienda Ospedaliera. Workshop I Rischi Psicosociali sul lavoro: stress occupazionale e disadattamento lavorativo, Pisa. 6) Boccalon R. (1993). Organizzazione del lavoro, soggettività e burn-out nelle strutture sanitarie, In La Rosa M. (a cura di) (1993). Stress e lavoro, Milano, Franco Angeli. 7) Boccalon R. (1999). Chi cura rischia di bruciarsi, Il Sole 24 Ore – Sanità e Management n° 37. 8) Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche 2019. Cosimo Della Pietà Michela Del Nigro Anna Tosi  
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