Normative

Il sanitario assolto in sede penale non ha diritto al risarcimento del danno in caso di sospensione cautelare

Commento a sentenza Cass. Sez. lavoro n. 33377 del 27/12/2018.

La Corte di Appello di Messina ha respinto l’appello proposto dal ricorrente avverso la sentenza dello stesso tribunale di prime cure volto a ottenere: l’accertamento dell’illegittimità della sospensione cautelare dal servizio disposta dall’azienda sanitaria datrice di lavoro; la condanna della parte resistente alle differenze retributive maturate nel periodo di sospensione; il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, derivanti dall’illegittima sospensione e dalla condotta vessatoria subita dalla parte ricorrente nel periodo da giugno 2000 a gennaio 2001.

La Corte di Appello ha evidenziato che il provvedimento di sospensione cautelare era stato adottato dall’azienda sanitaria nel rispetto delle condizioni richieste dall’art. 30 del Ccnl 1998/2001 per la dirigenza medica e veterinaria al servizio del Ssn, precisando che la sospensione era stata motivata in relazione alla gravità dei fatti contestati, connessi con l’espletamento del servizio ed accertati in sede penale dalla sentenza di primo grado che, sebbene soggetta ad impugnazione, aveva riconosciuto la colpevolezza dell’odierno appellante.

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Il giudice di Appello, poi, ha aggiunto che nessun rilievo poteva avere la successiva assoluzione dalle accuse penali, poiché la sentenza non valeva ai fini di rendere illegittima la sospensione a suo tempo validamente disposta, rilevando solo ai fini della riammissione al servizio, per altro tempestivamente avvenuta. La Corte ha inoltre sottolineato che il principio di immediatezza della contestazione va inteso in senso relativo e va coordinato con le esigenze di accertamento del fatto, ritendendo il comportamento dell’amm.ne sanitaria, che ha atteso la pronuncia di primo grado per disporre la sospensione, del tutto legittimo, proprio a garanzia dell’accusata odierna ricorrente.

Infine la Corte di Appello ha respinto la domanda risarcitoria della ricorrente, poiché da un lato, l’azienda sanitaria non poteva rispondere di danni derivanti da un atto legittimo e dall’altro, poiché non era stata dimostrata la condotta vessatoria dell’azienda nei riguardi della ricorrente e perché il trasferimento era stato avviato in considerazione dell’inidoneità espressa dall’appellante a svolgere le attività stressanti tipiche del servizio di medicina trasfusionale.

La Suprema Corte valuta le risultanze e le deduzioni espresse dal ricorso dell’odierna ricorrente, che afferma quanto segue.

  • La ricorrente sostiene che la sospensione cautelare richiamata dalle norme contrattuale in rubrica, va disposta, eventualmente, nell’immediatezza del rinvio a giudizio perché misura giustificata solo qualora la permanenza nel posto di lavoro del dipendente sottoposto a procedimento penale possa ledere il prestigio e la funzionalità del servizio.
  • Il tempo trascorso dalla conoscenza dei fatti è sufficiente a dimostrare il carattere vessatorio ed arbitrario dell’atto, in quanto l’odierna ricorrente aveva continuato a svolgere regolarmente il proprio servizio per tutta la durata del procedimento penale di primo grado. In ogni caso non sarebbe stata sufficiente la sentenza di condanna per giustificare la sospensione perché i disservizi rilevati al centro trasfusionale dell’azienda de qua, erano dovuti a carenze strutturali e di personale, più volte segnalati, tant’è che, proprio a seguito di tali segnalazioni nel processo di primo grado erano state riconosciute le attenuanti generiche alla odierna ricorrente.
  • I giudici di merito avrebbero dovuto considerare che la vicenda penale si riferiva a condotte risalenti nel tempo, già cessate al momento della sospensione, ed inoltre che avrebbero dovuto valorizzare la successiva assoluzione da tutte le accuse derivanti dal giudizio di primo grado.
  • La ricorrente sostiene che a seguito della sentenza penale di assoluzione l’amm.ne avrebbe dovuto revocare il provvedimento di sospensione e non solo limitarsi a disporre la riammissione in servizio, inoltre avrebbe dovuto predisporre la ricostruzione della carriera in termini sia giuridici che economici.
  • Aggiunge la ricorrente che in considerazione dell’illegittimità della sospensione, la stessa avrebbe dovuto essere risarcita per danno biologico, danno alla professionalità e all’immagine, il danno morale, il danno esistenziale a alla vita di relazione.
  • Sostiene inoltre che la corte abbia anche errato nella decisione poiché questa non poteva essere fondata sulla testimonianza del Dott. X, in quanto a quest’ultimo era stato deferito l’interrogatorio formale essendo all’epoca D.G. dell’azienda. Non poteva quindi il Tribunale disporre d’ufficio la trasformazione della prova, perché quest’ultima è rimessa alla disponibilità delle parti, ed inoltre ogni mezzo di prova risponde a sue regole proprie.
  • Rileva inoltre che la qualità rivestita dal teste doveva essere considerata ai fini della valutazione di attendibilità del teste, sicché la Corte non poteva fondare la propria pronuncia sul rigetto delle dichiarazioni rese da quest’ultimo senza aver valutato le doglianze espresse dalla ricorrente.
  • Lamenta inoltre la carenza di motivazione e omessa decisione della corte sulla condotta vessatoria tenuta dai vertici aziendali nei confronti della ricorrente, alla quale era stato proposta un trasferimento d’ufficio alla medicina dei servizi, sicchè la sospensione altro non era che uno strumento per attuare l’allontanamento della dipendente dal suo posto di lavoro non ottenuto con altri mezzi.

Deduce quindi quanto segue:

Occorre premettere che la sospensione cautelare, che ha natura strumentale e non sanzionatoria,

non è condizionata, in quanto a validità, dalle regole che disciplinano l’esercizio del potere disciplinare perché la stessa, che non richiede il contradditorio con l’interessato, trova nell’impiego pubblico contrattualizzato la sua ratio nella necessità di tutelare la credibilità dell’amm.ne presso il pubblico, cioè, il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione opera (Corte Cost. n. 206/1999).

Alla luce quindi di detta ratio che vanno interpretate le disposizioni dettate dalle parti collettive e nel caso di specie dell’art. 30 del Ccnl dirigenza medica, con il quale si è consentito all’mm.ne di sospendere dal servizio, fino alla sentenza penale definitiva, il dirigente rinviato a giudizio “per fatti e comportamenti, anche estranei alla prestazione lavorativa, che siano di tale gravità da risultare incompatibili con la presenza in servizio”.

La sospensione si limita a richiedere, quale condizione di validità della misura, il preliminare vaglio di fondatezza dell’accusa, espresso dall’autorità giudiziaria co il rinvio a giudizio, ma non impone l’immediata adozione della misura cautelare al sorgere del requisito previsto e, quindi, non impedisce all’ente di attendere l’esito della pronuncia di condanna di primo grado e di ritenere le sussistenti le esigenze cautelari solo a fronte della pronuncia di condanna seppur non definitiva.

L’assunto quindi della ricorrente, secondo cui il tempo trascorso dal rinvio a giudizio sarebbe sufficiente a dimostrare l’insussistenza delle misure cautelari è privo di fondamento sia contrattuale che normativo ed è smentito dallo stesso legislatore che, nel dettare la disciplina della sospensione in relazione ai reati di maggiore gravità commessi dai dipendenti pubblici, ha ritenuto, con gli artt. 3 e 4 della legge 97/2001, di imporre la sospensione solo facoltativa dopo il rinvio a giudizio, in caso di condanna non definitiva, sul presupposto che quest’ultima accresca le esigenze cautelari, minando la credibilità dell’amm.ne che continui ad avvalersi delle prestazioni del dipendente, nonostante l’avvenuto riconoscimento della colpevolezza, all’esito del giudizio di primo grado.

La succitata normativa seppur non applicabile al caso di specie, conferma che la sospensione, in quanto misura cautelare e non sanzionatoria, non deve essere necessariamente disposta nell’immediatezza della conoscenza dei fatti di rilievo disciplinare e, pertanto legittima la condotta dell’amm.ne che pur potendo avvalersi della facoltà già al momento del rinvio a giudizio, preferisca attendere a maggior tutela del dipendete, il vaglio delle risultanze dibattimentali del procedimento penale.

La legittimità del provvedimento deve essere poi valutata al momento della sua adozione e solo qui il giudice è chiamato ad accertare se a quella data sussistevano le condizioni richieste dalle parti per il valido esercizio del potere di allontanamento dal servizio. Le vicende penali successive non hanno valore a rendere illegittimo un provvedimento cautelare adottato dal datore di lavoro in presenza dei presupposti previsti dal Ccnl, non è quindi configurabile un inadempimento nei casi in cui la condotta si sia conformata alle disposizioni di legge ed ai contratti collettivi che disciplinano il rapporto di lavoro. La tutela del dipendente resta quindi circoscritta a quanto previsto dai contratti collettivi e quindi alla riammissione in servizio con diritto a percepire il trattamento retributivo che sarebbe spettato qualora il provvedimento cautelare non fosse stato adottato.

La Corte territoriale ha quindi correttamente escluso che la sentenza di assoluzione, per altro intervenuta quando la ricorrente aveva già audito l’autorità giudiziaria per contestare l’illegittimità della sospensione, potesse rilevare ai fini dell’accoglimento della domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità dell’atto e la condanna dell’azienda al risarcimento dei danni. Tutti gli altri motivi di ricorso sono inammissibili, il ricorso pertanto deve essere rigettato con conseguente condanna alle spese di giudizio che ammontano ad euro 4.000 per competenze professionali più 200 euro per esborsi.

La sospensione cautelare, quindi, ha un’origine strumentale, giammai sanzionatoria e serve a permettere all’mm.ne di tutelare la propria immagine dinanzi all’utenza, per fatti gravi che possono incidere sulla fiducia che la stessa utenza ripone nelle istituzioni. Ovvero, di tutela del dipendente che magari ha subito molestie sul luogo di lavoro da altro dipendente e che per ragioni di mala gestio continui a lavorare a stretto contatto con il molestatore, cosa che spesso capita in grosse aziende poco attente alla tutela della persona.

È il caso avvenuto pochi mesi orsono in una grande azienda sanitaria romana, presso la quale i molestatori erano ben due chirurghi che hanno continuato per mesi a prestare la propria opera affiancati dalle stesse donne strumentiste molestate, una situazione di una gravità estrema che ha visto la magistratura intervenire a difesa delle molestate con la richiesta di allontanamento dei molestatori.

Dott. Carlo Pisaniello

 

Redazione Nurse Times

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