Categorie: Normative

La tutela del licenziamento Jobs Act

 

…a cura del Prof. Mauro Di Fresco

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In attuazione della Legge 10.12.2014 n. 183, il Governo dovrà emanare un Decreto Legislativo che disciplini la tutela del rapporto di lavoro subordinato pubblico e privato a tempo indeterminato.

Intanto, in previsione di ciò, è stato reso noto lo schema preliminare del D.Lgs. che consta di 12 articoli.

Riguardo la comparazione della nuova procedura di licenziamento e delle sue tutele in rapporto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (d’ora in poi St. lav. cioè della legge 20.05.1970 n. 300 come modificato dalla riforma Fornero), ci interessa esaminare pochi ma complessi articoli.

Vorrei precisare che la normativa è di difficile lettura e che, quindi, le deduzioni qui riportate potrebbero subire modifiche interpretative appena si formerà una nuova giurisprudenza in materia.                                                                          

In primis giova sapere che la nuova tutela dal licenziamento non si applicherà a chi ha già un contratto di lavoro ma solo a chi verrà assunto successivamente all’entrata in vigore del decreto, tranne in un caso: i datori di lavoro che impegnano meno di 16 dipendenti possono far applicare la nuova tutela a tutti i propri dipendenti se, successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. in costruzione, assumeranno nuovi lavoratori fino a raggiungere il fatidico numero complessivo di 16 impiegati, secondo quanto previsto dai commi 8 e 9 dell’art. 18. La dicitura (nomen iuris) utilizzata dal Governo per intitolare il nuovo D.Lgs. è: “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.

Sembrerebbe che la nuova normativa predisponga delle tutele via via sempre più pregnanti (crescenti) a favore dei lavoratori.
Non è così!

La tutela è peggiorativa rispetto a quella apprestata dall’art. 18 perciò potrebbe essere reintitolata “a tutele decrescenti”.

Comunque se il Governo ritiene di premiare le aziende che assumono lavoratori fino a raggiungere la soglia dei 16 dipendenti, significa che licenziare sarà più facile rispetto al regime dell’art. 18.

Anche il Governo lo sa bene!

Non solo. Chi impedirà al datore una volta raggiunta la soglia di 16 dipendenti e aver ottenuto l’applicazione della nuova procedura, di liberarsi dei lavoratori neoassunti?

La norma tace sul punto ma la risposta è ovvia. La presenza di un doppio binario nella tutela dei lavoratori licenziati, profuma di incostituzionalità.

E’ vero che i lavoratori tutelati dall’art. 18 andranno scemando nel tempo, ma il doppio binario durerà per decenni a meno che il Governo non abbia in mente di procedere gradualmente, appena raggiunta la calma sociale, ed attraverso successivi decreti legislativi o decreti legge, di applicare la nuova tutela a sempre più settori lavorativi fino a ricomprenderli tutti.

A prescindere dalla strategia governativa che non potrei conoscere, intendo spiegare la complessa legislazione jobactiana procedendo per una migliore esposizione, per tipologie:

Licenziamento discriminatorio
L’art. 18 dispone la nullità del licenziamento per discriminazione determinato per motivi di credo politico, di fede religiosa, per l’appartenenza ad un sindacato o ad un’associazione e per la partecipazione ad esse (art. 4, legge 15.07.1966 n. 604) oltre che effettuato in concomitanza col matrimonio (art. 35 codice pari opportunità del D.Lgs. 11.04.2006 n. 198), durante la gravidanza e la maternità o la paternità di cui all’art. 52 del D.Lgs. 26.03.2001 n. 151 oltre che per motivi illeciti del contratto ex art. 1345 C.C.. In questo caso il giudice annulla il licenziamento a prescindere dal numero di impiegati assunti (tanto è vero che viene tutelato anche il dirigente) e dispone la reintegrazione nel posto di lavoro oltre il pagamento di un’indennità (chiamata erroneamente e contraddittoriamente “risarcimento del danno”) pari all’ultima retribuzione di fatto percepita moltiplicata per il tempo che il lavoratore ha trascorso senza lavorare. Anche se è rimasto disoccupato per meno di 5 mesi, è comunque dovuta un’indennità lorda di 5 mensilità. Questa tutela definita “reale” si applica anche in caso di licenziamento intimato verbalmente. Decade tutta la tutela se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivoltogli dal datore ovvero decade dal diritto di reintegrazione se chiede il pagamento di un’indennità di rinuncia che è pari a 15 mensilità nette.

Anche il nuovo D.Lgs. tutelerà il licenziamento discriminatorio, come prima precisato, oltre agli altri casi di nullità di legge (quindi anche i casi di cui all’art. 1345) e seguirà perfettamente la procedura dell’art. 18. Anche se il D.Lgs. non prevede che tale tutela si applichi al dirigente, è probabile che la giurisprudenza provvederà ad integrare questa lacuna, sempre che risulti tale e che non sia invece voluta.
Comunque la discriminazione è un abominio per il nostro ordinamento democratico per cui penso che non potrà essere in alcun modo tollerata neppure se attuata sui dirigenti.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa
Dobbiamo premettere, per ricordare ai lettori la differenza tra i tre diversi istituti, che per giustificato motivo oggettivo si intende la ragione inerente l’attività produttiva dell’azienda, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Ciò riguarda i motivi legati all’esistenza e all’unità dell’azienda soprattutto in ragione della produzione (es. soppressione di un reparto o un ramo dell’azienda) e della crisi aziendale e alla sua strutturazione organizzativa (es. razionalizzazione dei sistemi o delle fasi produttive).

Il licenziamento per cause oggettive è attuato quando non è possibile riutilizzare il dipendente in altre mansioni (V. repechage su www.aadi.it/BDI). La fonte legislativa è rinvenibile agli artt. 3 e 7, co. 1 della legge n. 604/1966.

Le motivazioni soggettive sono invece legate al comportamento del lavoratore è possono essere ascritte alle regole definite dal Codice disciplinare.

La giusta causa (art. 2119 C.C.) è invece un motivo che determina la totale perdita di fiducia da parte del datore per comportamento ingiustificabile del lavoratore e che costringe il datore al c.d. licenziamentoad nutum cioè in tronco o senza preavviso. Non deve essere necessariamente riconducibile al Codice Disciplinare ma può attenere condotte socialmente riprovevoli (Cass., sez. lav., 13 settembre 2005, n. 1830 – anche perché un codice non sempre può prevedere tutti i possibili atti umani). Premesso ciò, bisogna evidenziare che l’art. 18, al comma 4 e ss. disciplina esclusivamente il licenziamento dettato da motivi soggettivi e da giusta causa ma non quello determinato da motivi oggettivi che regola al comma 7. Nelle situazioni regolate dall’art. 18, il giudice annulla illicenziamento e ordina la reintegrazione nel posto di lavoro quando è accertato che il fatto posto a ragione del licenziamento, che sia una crisi aziendale (oggettivo) o un’infrazione disciplinare (soggettivo) o una giusta causa (furto), è falso o inesistente o inconsistente, almeno nei contenuti descritti dalla parte datoriale ed anche quando non viene rispettato il principio di proporzionalità della sanzione (quando si punisce con il licenziamento un’infrazione che, invece, doveva essere punita con una sanzione conservativa del posto di lavoro come può essere per esempio la sospensione dal servizio). In aggiunta alla tutela reale è prevista quella obbligatoria sempre calcolata sulla retribuzione mensile moltiplicata per il tempo di disoccupazione ma non oltre le 12 mensilità. Il datore deve anche pagare, a parte, i contributi previdenziali e assistenziali maturati nel periodo di disoccupazione.

Anche in questo caso il lavoratore può optare per il pagamento dell’indennità di rinuncia. Nel caso in cui il fatto posto a ragione del licenziamento (per giustificato motivo soggettivo o giusta causa) risulta accertato nei termini espressi dal datore ma che per altri motivi non sia possibile acclarare il giustificato motivo o la giusta causa ovvero non ne ricorrono gli estremi nella loro puntuale definizione, il giudice dichiara comunque efficace il licenziamento e condanna il datore all’indennità in parola tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

Se il licenziamento è invece dichiarato dal giudice inefficace perché il lavoratore ha chiesto nei termini le motivazioni del proprio licenziamento e il datore non lo ha reso per iscritto entro 7 giorni (co. 2, art. 2, legge 15.07.1966 n. 604), il giudice deve comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro (e, quindi, il licenziamento) ma l’indennità del danno è commisurata tra un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità a meno che il lavoratore non formuli in ricorso, vittoriosamente, anche un difetto di motivazione nel merito del licenziamento. In questo caso il petitum del ricorso porta l’oggetto del licenziamento alla prima tutela prevista dall’art. 18, quindi se il fatto addebitato è insussistente, oltre all’indennità pari al massimo a 12 mensilità, viene ordinata la reintegrazione, salva la rinuncia indennizzata richiesta dal lavoratore netro 30 giorni. Ma se il fatto risulta acclarato nonostante non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, il licenziamento verrà confermato e l’indennità maggiorata da 12 a 24 mensilità.

La nuova procedura di licenziamento prevede sempre la tutela dei soli casi di giustificato motivo soggettivo e giusta causa. Il giudice annulla il licenziamento solo se il fatto contestato ovvero posto a ragione del licenziamento risulterà, direttamente e senza dubbio, insussistente. La formula adottata dal Governo non permette di interpretare la locuzione impiegata in maniera diversa dalla stretta osservanza di un impianto probatorio difensivo processuale che sia ictu oculi, diretto e non indiretto nel senso che la falsità del fatto cioè la diversa ricostruzione dell’evento addebitabile al lavoratore dovrà trovare una incontrovertibile logica. Quanto richiesto dal legislatore affinché il giudice annulli il licenziamento con effetti reintegrativi pone non pochi timori sulla reale possibilità di subornare i testi. La prova per testi, per questa tipologia di licenziamento, assume primaria importanza perché permette di ricostruire i fatti secondo la visione dei colleghi (e non solo) anziché delle parti. Quanto testimonieranno i colleghi riverbererà sulla valutazione che opererà il giudice sui fatti, per decidere se quanto contestato è vero o è falso, è avvenuto oppure non si è realizzato per nulla o quantomeno non nelle circostanze o nei modi descritti dal datore di lavoro. Nel caso in cui il fatto risulterà insussistente ovvero anche insufficiente o attenuato rispetto alla gravità descritta, oltre all’ordine di reintegrazione, il datore sarà obbligato ad indennizzare la vittima versandogli una somma pari alla retribuzione mensile per tutto il periodo di disoccupazione non superiore a 12 mensilità oltre i contributi. Anche in questo caso è possibile optare per l’indennità di rinuncia. La critica ascrivibile alla norma (art. 3, co. 2) riguarda l’applicazione della tutela reale al solo caso di insussistenza del fatto e non anche ai vizi della procedura disciplinare. La procedura disciplinare è costituita anche da una serie di termini perentori posti a tutela dei principi di tempestività, celerità, certezza del diritto e legalità. Principi che potranno essere tranquillamente violati dal datore di lavoro se la finalità del licenziamento sarà quella di liberarsi definitivamente del lavoratore scomodo. Non solo.

Se il datore dovesse violare il diritto di difesa del lavoratore incolpato, per esempio rifiutandosi di audirlo prima di comminare la sanzione disciplinare così come prescrive il co. 2, art. 7 della legge n. 300/1970, il licenziamento risulterebbe comunque efficace.

Il diritto di difesa è fondamentale per garantire il contraddittorio e il rispetto non solo dei diritti del lavoratore ma soprattutto dell’uomo in quanto tale. – Cass., sez. lav., SS.UU. n. 3965/1994; Corte d’Appello Milano, 4 giugno 2002 (Pres. Ruiz, Est. De Angelis, in D&L 2002, 721, con nota di Giuseppe Bulgarini d’Elci, Sul diritto di difesa del lavoratore sottoposto ad azione disciplinare). Anche Cassazione lavoro 26 ottobre 2010, n. 21899 sostiene che: “Il datore di lavoro ha l’obbligo di sentire a difesa il lavoratore prima di qualsiasi intervento disciplinare nei suoi confronti,licenziamento compreso”. – Cass., sez. lav., 2 maggio 2005, n. 9066, Pres. Sciarelli, Est. Stile, in Orient. Giur. Lav. 2005, 288; Cass., sez. lav., 13 gennaio 2005, n. 488, Pres. Mercurio, Est. Miani Canevari, in Orient. Giur. Lav. 2005, 81, e in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Domenico Carlomagno, Sulle modalità di esercizio del diritto di difesa del lavoratore nel procedimento disciplinare, 134; Cass., sez. lav., 28 agosto 2000, n. 11279, pres. Mercurio, in Orient. giur. lav. 2000, 708; È illegittima, per mancato rispetto della garanzia procedimentale di cui all’art. 7, 2° comma, St. Lav., la sanzione disciplinare comminata in mancanza dell’audizione orale richiesta dal lavoratore – Pret. Firenze 10 dicembre 1998, est. Varriale, in D&L 1999, 603, n. Pavone, Sanzione disciplinare: vizi di forma e domanda di restituzione delle somme trattenute; Cass., sez. lav., 28 marzo 1996, n. 2791, Pres. Lanni, Est. Trezza, in D&L 1996, 981. In senso conforme, v. Pret. Milano, sez. Rho, 25 marzo 1998, Est. Ferrari da Passano, in D&L 1998, 1094; Il datore di lavoro deve, a pena di nullità della successiva sanzione, consentire l’audizione orale richiesta dal lavoratore con assistenza da parte di sindacalista di sua scelta

– Pret. Milano 15 ottobre 1994, Est. De Angelis, in D&L 1995, 79. Sul punto è conforme anche Corte di Cassazione, sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21066; Cass., sez. lav., 23 febbraio 2002, n. 4187; 16 settembre 2000, n. 12268 e 28 agosto 2000, n. 11279.

Non vi è dubbio, quindi, che la norma rivoluzioni profondamente il ius receptum, sconvolgendo una logica indefettibile. L’esercizio del diritto di difesa trova ragione direttamente nella Carta Costituzionale (co. 2 dell’art. 24 – La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento).

La Corte costituzionale è già frequentemente intervenuta nel passato per dichiarare incostituzionali norme di legge (es. sent. n. 505/1995 sull’art. 56, secondo comma, della legge 3 febbraio 1963, n. 69 – Ordinamento della professione di giornalista). Dall’esame di numerose normative fondamentali del nostro sistema giudiziario, come per esempio dell’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo relativo ai ricorsi (da ultimo il D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199), degli artt. 111 e 112 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico degli impiegati civili dello Stato) può desumersi che trovano diretta e necessaria applicazione i principi relativi al diritto dell’interessato di conoscere gli atti che lo riguardano per esercitare pienamente il diritto di difesa.

Il diritto di difesa è talmente importante da sovrastare quello della riservatezza, nei limiti che conosciamo: “Sono note le difficoltà di definire con una regola generale ed in maniera esaustiva l’ambito applicativo della privacy nei casi in cui si debba procedere ad individuare un equo bilanciamento tra tale diritto ed altro diritto anche esso a copertura costituzionale. Sul punto è stata rimarcata nella materia in esame l’esigenza che si pervenga ad un esito variabile così come patrocinato da una autorevole opinione dottrinale, che nei casi di contrapposizione di diritti garantiti dalla Carta Costituzionale parla di gerarchia mobile. Principio questo da intendersi, non come rigida e fissa subordinazione di uno degli interessi all’altro, ma come concreta individuazione da parte del Giudice dell’interesse da privilegiare tra quelli antagonistici a seguito di una ponderata valutazione della specifica situazione sostanziale dedotta in giudizio con conseguente bilanciamento tra gli stessi, capace di evitare che la piena tutela di un interesse possa tradursi nella limitazione di quello contrapposto tanto da vanificarne o ridurne il valore contenutistico. Non si è mancato di osservare in dottrina, proprio in una materia attinente al diritto di riservatezza, che l’operazione di bilanciamento può condurre ad un arretramento di tutela dei dati personali tutte le volte in cui nel conflitto di interessi il grado di lesione della dignità dell’interessato sia di ridotta portata rispetto a quella che subirebbe il diritto antagonista, non potendo consentirsi all’interessato di trincerarsi dietro l’astratta qualificazione del suo diritto sì da limitare in maniera rilevante il diritto di difesa della controparte. La condivisione da parte di questa Corte di tale assunto induce ad affermare che il richiamo ad opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto alla privacy, cui il legislatore assicura in sede giudiziaria idonei strumenti di garanzia, non può dunque legittimare, nei casi come quello in esame, una violazione del disposto di cui all’art. 24 Cost. che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, non può incontrare nel suo esercizio ostacoli all’accertamento della verità materiale a fronte di addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla persona dell’incolpato ed alla sua onorabilità o, come nel caso in esame, anche alla perdita del diritto al posto di lavoro. Ragioni di completezza motivazionale inducono a evidenziare, con riferimento a fattispecie aventi ad oggetto il diritto alla riservatezza, come nella giurisprudenza di legittimità si riscontri ripetutamente l’affermazione che il giudice di merito debba effettuare in caso di contrapposizione di diritti una comparazione tra gli stessi al fine di trovare un giusto equilibrio tra le posizioni delle parti in lite (Cass., 30 giugno 2009, n. 15327, secondo cui la riservatezza dei dati personali debba recedere qualora il relativo trattamento sia esercitato per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante e nei limiti in cui sia necessario per la tutela dello stesso e sempre per la necessità di una valutazione comparativa tra il diritto protetto dalla suddetta normativa ed il rango del diritto azionato)”.

Ritengo, quindi, dalle considerazione appena esposte, che l’art. 3 del nuovo D.Lgs. in definizione sia incostituzionale perché degrada il diritto di difesa a mero vizio sanabile con il pagamento di un’indennità mentre sovrasta esclusivamente l’insussistenza del fatto. Secondo il mio parere i vizi procedurali che attengono i termini perentori, l’accesso della documentazione e il pieno diritto di difesa, dovrebbero essere tutelati realmente con la reintegrazione in servizio e non con il baratto. Non si tratta di svendere l’opportunità dei lavoratori ma di umiliare profondamente la persona facendole perdere, volendo, il posto di lavoro in spregio alle tutele previste dalle normative specifiche, come quella disciplinare, fondate in più punti su diritti costituzionali.

Licenziamento oggettivo e per inidoneità psicofisica
La legge 12.03.1999 n. 68, disciplina l’idoneità psicofisica del lavoratore. L’art. 18 tutela il licenziamento operato sui lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia anche cagionata per inadempimento datoriale dimostrata in sentenza per violazione del D.Lgs. n. 81/2008 ed altre norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro (colpa per negligenza e imprudenza) che abbia ridotto la capacità lavorativa inferiore al 60%.
In questo caso prima di adottare la soluzione del licenziamento deve essere tentato il repechage.

Solo quando la Commissione medica di verifica accerti l’inidoneità a proficuo lavoro, la tutela dell’art. 18 cessa di operare. Quando il giudice accerta che il lavoratore licenziato non rientra assolutamente tra le tipologie sopra indicate o che la lavoratrice è stata licenziata durante la gravidanza o il puerperio (art. 2110 C.C.), annulla il licenziamento reintegrando il lavoratore e commina un’indennità mensile per il periodo di disoccupazione, al massimo di 12 mensilità oltre ai contributi. Riguardo gli altri motivi oggettivi, il comma 7 dell’art. 18 ci riporta alla insussistenza del fatto (V. il comma 4) come ratio per la tutela reale ed obbligatoria già considerata. Negli altri casi in cui accerta che non ricorrono gli estremi per addebitare un motivo oggettivo, conferma il licenziamento e commina un’indennità da 12 a 24 mensilità. Questa tutela, così come è stata modificata dalla riforma Fornero, è peggiorativa rispetto a quella precedentemente regolata dall’art. 8 della legge 15.07.1966 n. 604, novellato dall’art. 2, co. 2 della legge 11.05.1990 n. 108. La norma prevedeva che in ogni caso in cui non ricorressero gli estremi dellicenziamento (e, quindi, non solo in caso di insussistenza del fatto contestato o dedotto dal datore), operasse la reintegra entro 3 giorni o, alternativamente, il risarcimento del danno attraverso un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità retributive. L’indennità era di 10 mensilità se il lavoratore aveva un’anzianità di servizio superiore a 10 anni e di 14 mensilità se il lavoratore aveva oltre 20 anni di anzianità solo però se l’azienda impiegava almeno 16 lavoratori.

La riforma Renziana è identica a quanto previsto dall’art. 18. Quindi per i lavoratori parzialmente inabili, nulla è cambiato. Però i licenziati per motivi oggettivi non potranno procedere al ricollocamento previsto dall’art. 7 della legge n. 604/1966.

Licenziamento in genere con vizi procedurali
L’art. 18 permette di dichiarare inefficace ogni licenziamento che non è stato fondato sulla legalità. Per legalità si intende il rispetto della parte datoriale delle prescrizioni di legge che hanno contenuto precettivo. Non specificare i motivi sottesi il licenziamento entro 7 giorni dalla richiesta intimata dal lavoratore, trasmettere una contestazione di addebito oltre i termini previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sorvegliare con le telecamere il lavoro, audire il lavoratore prima di comminargli la sanzione, allontanare dall’audizione il procuratore del lavoratore o, ancor peggio, non informare il lavoratore dei propri diritti di difesa incorporando nella contestazione quanto prescritto dallo Statuto o dalla contrattazione, costituiscono, soprattutto per i giuristi amanti del diritto, una sopraffazione del potere legislativo che poco ha a che fare con i principi costituzionali. Spero che la Corte Costituzionale intervenga per limare alcune regole che, di fatto, pongono il lavoratore ostaggio del potere e del conformismo aziendale che non sempre aiuta lo sviluppo della libera personalità del lavoratore o aiuta a costruire un ambiente sereno.

Il nuovo D.Lgs. disporrà che, nel caso in cui il datore ometta di specificare i motivi richiesti dal lavoratore per sapere perché è stato licenziato (art. 2, co. 2, L. n. 604/1966), ovvero qualora la procedura disciplinare il datore violi tutte le prescrizioni obbligatorie dettate dalle fasi progressive per definire i termini, i doveri del datore e i diritti del lavoratore (art. 7 St. Lav.), il giudice confermi comunque il licenziamento accontentando il lavoratore deluso dal disprezzo dello Statuto dei Lavoratori con un’indennità pari ad una retribuzione per ogni anno di lavoro prestato ma non superiore a 12 mensilità. Attenzione però: è possibile la reintegra e la tutela obbligatoria piena (una retribuzione per tutto il periodo di disoccupazione senza limite) se nel ricorso il lavoratore si ricorda di contestare specificamente la sussistenza del fatto contestato, isolandolo dal contesto per meglio confutarlo. Diversamente il giudice confermerà comunque il licenziamento. Questa regola apre una polemica infinita sulla responsabilità professionale degli avvocati che qui non intendo affrontare. Però se il lavoratore dovesse perdere il posto di lavoro per insufficienza o inconferenza del ricorso, gli effetti potranno essere devastanti. La norma, comunque, è insidiosa. Si dovrebbe permettere al giudice di esaminare a 360° gli elementi costitutivi del licenziamento, impedendo che alla verità sui fatti e al principio costituzionale di giustizia, si anteponga una semplice tecnica difensiva o ancor peggio, una dimenticanza. La riforma tutela ancora i lavoratori licenziati collettivamente (legge 23.07.1991 n. 223) reintegrandoli in caso di talune violazioni procedurali (art. 4, co. 12 e art. 5, co. 1). Per ultimo l’art. 12 ricorda che non è possibile applicare l’art. 18 ai licenziati sotto queste nuove disposizioni.

In conclusione le nuove disposizioni sul licenziamento serviranno ad affossare ancora di più il sindacato che, privato di ogni effettiva capacità d’azione, dovrà ancor più avvicinarsi al datore di lavoro, in un connubio di interessi e accordi finalizzati a non scomparire.

Stupisce come si tolleri la violazione delle legge ad opera del datore di lavoro e si punisca questo affronto con una semplice indennità, come per dire: “fai quello che vuoi, fregatene della legge basta che hai i soldi”.

I licenziati, seppur illegittimamente ma non per insussistenza del fatto o per discriminazione, diventeranno disoccupati, ma Renzi non li abbandonerà visto che l’art. 11 stabilisce che il nuovo Fondo per le politiche attive per la ricollocazione (presso l’INPS) regalerà un voucher che i disoccupati potranno utilizzare un’agenzia per il lavoro così da ottenere la ricerca gratuita di una nuova occupazione, un nuovo addestramento, formazione e riqualificazione; un po’ fantasioso visto l’indice di disoccupazione.

L’unico spiraglio di tutela sembra essere offerto dagli avvocati che dovranno impegnarsi per ricercare cavilli e spunti per applicare la tutela reale ai più disparati casi di licenziamento, più o meno tipici, che la fantasia italiana ha spesso dimostrato di saper creare.

E mentre i sindacati si affanneranno per accattivarsi il datore di lavoro con la speranza di acquietarlo per i casi disciplinari più gravi, il datore farà il vero padrone, deciderà chi colpire e chi tollerare nella più ampia discrezionalità che un paese cosiddetto democratico possa permettere.

Infatti l’art. 5 del nuovo D.Lgs. prevede che il datore, senza motivo, revochi il licenziamento e ripristini il rapporto interrotto. Una specie di miracolo che solo il padrone può decidere di fare o non fare a chi desidera; ma se non vuole alzare il polverone sul licenziamento poco pulito, può offrire al lavoratore al massimo 18 mensilità come buonuscita.

Il jobs act ha ucciso la giustizia sociale.

Prof. Mauro Di Fresco

Redazione Nurse Times

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