Normative

Le azioni discriminatorie e ostili vanno risarcite a titolo di “straining”

Riceviamo e pubblichiamo il commento del vicepresidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, dott. Carlo Pisaniello, a una sentenza riguardante questa forma attenuata di mobbing.

La Corte di Appello di Brescia rigetta il ricorso proposto dal ministero dell’Istruzione e dell’Università avverso la sentenza del tribunale della stessa città che aveva invece accolto il ricorso presentato dall’insegnante M.D., condannando il ministero al risarcimento danni, quantificato in 15.329 euro.

L’insegnante era stata dichiarata inidonea all’insegnamento e assegnata alla segreteria della scuola dopo che era sorta una disputa con la dirigenza scolastica per aver sollevato il problema della necessità di ulteriore personale per l’espletamento di servizi amministrativi.

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L’insegante, in seguito alle rimostranze nei confronti del dirigente scolastico, era stata da questi rimossa dal proprio incarico di insegnamento e dai consueti strumenti di lavoro, privata di ogni mansione e lasciata completamente inattiva. La Corte territoriale, richiamando le conclusioni della CTU disposta dal tribunale, ha evidenziato che la condotta, seppure non propriamente mobbizzante, integrava un’ipotesi di straining, ossia di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con specifico obiettivo discriminatorio.

Il giudice di Appello ha escluso che la diversa qualificazione data alle azioni allegate e provate in giudizio di primo grado implicasse una violazione del principio della necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato, in quanto non compete al ricorrente la qualificazione medico-legale della fattispecie ritenuta produttiva di danno risarcibile. Ha inoltre ritenuto provato il nesso causale fra le condotte denunciate e il danno biologico di natura temporanea e ha condiviso la liquidazione effettuata dal tribunale sulla base delle indicazioni fornite dal consulente tecnico di ufficio.

Contro la sentenza della Corte territoriale oppone ricorso in Cassazione il MIUR. 

Nel ricorso il MIUR affida le proprie deduzioni su 4 motivi:

  1. lamenta violazione/falsa applicazione della legge riguardo soprattutto agli artt. 1.218, 2.0143, 2.059, 2.087, 2.697 cod. civ. perché, secondo il MIUR, la Corte non si è limitata ad applicare una norma giuridica diversa da quelle invocate dalla parte, ma ha creato una nuova fattispecie, a cui ha ricollegato, in maniera arbitraria e apodittica, conseguenze proprie di altra fattispecie giuridica;
  2. secondo il MIUR il c.d. straining non costituisce una categoria giuridica (anche nella medicina legale la sua configurabilità è controversa), sicché, una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori, non vi è spazio per l’accoglimento della domanda risarcitoria;
  3. in presenza di una categoria sconosciuta alla dottrina e alla giurisprudenza, i giudici del merito avrebbero dovuto quantomeno fornire una giustificazione della scelta di dare rilevanza giuridica allo straining e non limitarsi ad aderire acriticamente alle conclusioni espresse dalla CTU;
  4. il MIUR esclude poi che gli atti posti in essere dal dirigente scolastico fossero di natura vessatoria, poiché quest’ultimo, in presenza di una inefficienza del servizio, aveva del tutto ragionevolmente ritenuto di utilizzare la dipendente per poter garantire in modo adeguato lo svolgimento delle mansioni amministrative.

La Corte di Cassazione, riunendo tutti i motivi per la loro connessione logico-giuridica, li ritiene infondati per le ragioni già espresse in una precedente sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016.

La Corte non considera violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. l’aver utilizzato la nozione medico-legale di straining, anziché quella di mobbing, perché lo straining non è altro che una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che per altro, ove si rilevino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2.087 cod. civ.

ll Collegio intende dare continuità al principio su enunciato perché, dell’art. 2087 cod. civ., la Cassazione ha da tempo fornito un’interpretazione

estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali primari quali: il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 della Costituzione.

Quindi l’ambito di applicazione della norma non è stato circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che, l’obbligo di tutela dell’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore d’opera, posto a carico del datore di lavoro, implica non solo l’astensione da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche impedire che, nell’ambiente di lavoro, si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona.

La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2.087 cod. civ. si configura, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile a un comportamento colposo, o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti, o la mancato rispetto dei principi generali  di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti.

A questi principi si è attenuta anche la Corte territoriale, che ha giustamente ritenuto sussistente la responsabilità del ministero, in quanto l’insegnante M.D. era stata oggetto di azioni ostili puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, identificate con la privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, l’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute e, infine, la riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità. Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso del MIUR, senza la condanna alle spese di giustizia, che vengono ritenute nulle.

Nella sentenza appena analizzata viene in rilievo un fatto importante, ossia la valutazione che la Corte dà dell’art. 2.087 cod. civ., che recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Di tale valutazione la Corte fornisce una visione estensiva che trova la sua ratio non solo nella tutela dell’eventuale infortunio sul lavoro, nell’utilizzo dei presidi di protezione individuale o nel corretto utilizzo di macchinari e strumenti,  bensì nella tutela molto più ampia che, in combinato disposto con gli artt. Cost. 32, 41 e 2, mette in rilievo quella che è la personalità morale del lavoratore, al fine di evitare il più possibile il verificarsi di situazioni che possano mettere in pericolo la salute anche psichica del lavoratore.

A nulla è valsa la strategia difensiva del MIUR, che ha tentato di escludere la qualificazione giuridica dello straining rispetto a quella codificata e più volte giudicata dalla Corte stessa del mobbing. La Corte, infatti, ha definito lo straining come un mobbing attenuato, che si differenzia dallo stesso solo per il carattere della non continuità delle azioni vessatorie, ma ha la stessa pretesa risarcitoria se produttivo di danno dell’integrità psicofisica.

Molto probabilmente, nell’ambiente lavorativo di oggi, sono maggiormente presenti episodi di straining che di vero e proprio mobbing, non fosse altro perché il mobbing, per essere dimostrato, deve rivestire caratteri molto più evidenti e continuativi, che devono poi essere documentati in modo preciso e puntuale; mentre episodi anche gravi, ma non prolungati nel tempo, vengono sottovalutati e non presi nella giusta considerazione. Forse questa recente sentenza consentirà di dimostrare più facilmente le ragioni di tanti lavoratori avviliti e oltraggiati, che fino ad oggi non avevano ricevuto la giusta considerazione.

Dott. Carlo Pisaniello

Redazione Nurse Times

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