L’impegno sociale degli infermieri a difesa del bene salute: questo sconosciuto

I dati ultimi sulla diminuzione dell’aspettativa di vita degli italiani ha subito sollevato critiche da parte di molti osservatori che imputano tale fenomeno al de-finanziamento, con conseguente taglio dei servizi, dei Sistemi Sanitari Regionali.

Ipotesi suggestiva, soprattutto per coloro che in questo momento storico si trovano sul fronte politico dell’opposizione, indipendentemente che si tratti di “destra” o “sinistra”, laddove quest’ultime non si riconoscano nel Partito ora al governo.

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In prima analisi questa visione potrebbe anche avere le sue fondamenta, il rischio però di una valutazione di parte atta soltanto a porre una forte critica all’attuale Governo guidato dal Presidente Renzi, rischia di trarre in inganno i cittadini e mantenere alta una deriva populista che non sarebbe utile per valutare in maniera obiettiva i dati.

Nell’epoca dei social, capita di trovarsi amici con persone che frequenti soltanto sulla rete ed è stata propria una di queste amicizia a portarmi in dote una riflessione che non avevo mai provato a fare, forse perché troppo impegnato ad osservare l’oggi senza approfondire l’analisi.

La domanda che dovremmo porci è quanto hanno influito le politiche sanitarie attuate negli ultimi anni affinché si registrasse un calo dell’aspettativa di vita, cercando di allargare lo sguardo oltre la semplicistica equazione: soldi= salute.

Questa domanda, scaturita dalla riflessione di questo social-amico, mi ha stimolato ad andare a ricercare l’andamento delle politiche sanitarie e del loro finanziamento dalla emanazione della 833 ad oggi per valutare se l’equazione di cui sopra era l’unica spiegazione plausibile.

E’ molto interessante aprire alcuni testi e scoprire come gli studi di impatto economico della spesa sanitaria siano stati costantemente effettuati dal 1980 ad oggi e ad una lettura molto superficiale è piuttosto curioso come la disomogeneità degli outcome regionali siano sempre esistiti, nonostante sino al 1999 il SSN fosse uno solo.

Uno dei principi cardine della Legge 833/78 era “l’equità dell’accesso al sistema sanitario”, gli studi condotti prima della cosiddetta Riforma Bindi dimostrano come l’obiettivo non era stato raggiunto. L’applicazione del principio di equità aveva visto un’applicazione riduttiva e soprattutto in termini di “input”: a fronte di una spesa pro-capite simile tra le regioni, esse presentavano una disomogeneità in termini di produzione di salute a causa di una eterogeneità di efficacia ed efficienza dei servizi.

La legge 833/78 nata per istituire il SSN e cosi rispondere in maniera coerente alle disposizione costituzionali previste dall’art 32, non è rimasta immutata nella suo formula originaria sino al 1992, anzi, per cercare di frenare la spesa sanitaria basti pensare che nei suoi primi 5 anni di vita la riforma per eccellenza aveva visto nascere ben 5 leggi a sostegno per poter definire sostenibile il sistema.

Quanto introdotto nel 1992 è passato alla storia come la aziendalizzazione del SSN, ovvero una trasformazione dell’Unità Sanitarie Locali in Aziende ma quello che maggiormente avrebbe dovuto essere sottolineato che si è passati dal principio di garanzia di un livello standard di servizi (833) i ad un livello uniforme di finanziamento (502). La “salute” con la 502/1992 perdeva una visione “sociale” ed acquistava una visione economica: “il diritto alla salute è un diritto finanziariamente condizionato”.

Appare evidente che da quale momento i valori ispiratrici della 833 venivano stravolti per non dire immolati a principi di finanza pubblica, per dirla in maniera grezza “era tutto una questione di cassa”. In fondo l’art. 1 della L. 421/1992, pur nella sua ambiguità indicava “il contenimento della spesa sanitaria” come uno degli obiettivi da raggiungere e le prestazioni sanitarie dovevano essere fornite “in coerenza con le risorse stabilite dalla legge finanziaria”. E’ pur vero che la riforma ter del 1999 tentò di dare un limite a questi principi, un limite che verrebbe da dire lo Stato centrale ha scaricato sulle Regioni.

Questo brevissimo ed incompleto excursus sulla storia del SSN mi dà la possibilità di sostenere fortemente la tesi che nel nostro Paese sono anni (e governi) che non si parla di politiche sanitarie e la Sanità Pubblica è percepita quasi esclusivamente come un capitolo di spesa.

Eppure è noto come salute e sviluppo economico siano fortemente in relazione tra loro: la ricchezza (il famoso PIL) dipende molto dalla qualità della salute della popolazione.

Questo aspetto è da sempre sottovalutato da chi ha compiti di governo ma non possiamo affermare che chi oggi si oppone politicamente abbia in agenda una politica sanitaria che punti a migliorare le condizioni di salute.

Le disuguaglianze sono in aumento e con esse una difficoltà di accesso alle cure che mai si è registrata nel nostro Paese, forse solo nel periodo pre-riforma e non a caso le correnti di pensiero erano tutte volte alla creazione di un Sistema Universalistico ed Equo.

Sarà solo un caso del destino ma negli ultimi 25 anni le condizioni di vita degli italiani ha visto progressivamente ridursi la qualità della vita. In questi anni, con una brusca accelerazione dal 2009, la popolazione ha visto aumentare la precarizzazione, la disoccupazione, l’inquinamento ambientale, in un concatenamento di cause/effetto che ha portato i cittadini a perdere principi come l’universalità e l’equità di accesso alle cure.

In questo momento sarebbe opportuno che i professionisti della salute avessero una capacità di lettura della situazione sociale in cui versa il Paese, cosa di cui ad oggi dubito abbiano. Se così non fosse non saremmo giunti ad un peggioramento dei dati dell’aspettativa di vita.

Appare evidente come non vi sia alcuna volontà a leggere “socialmente” il proprio impegno in termini di tutela della salute, in quanto è diventato complesso a causa di troppe variabili di cui tenere di conto ma soprattutto poco remunerativo in fatto di visibilità

È paradossale che proprio oggi ci sia un minor impegno “sociale” da parte delle professioni sanitarie, proprio perché diventate “professioni” ed avendo acquisito strumenti e metodi per valutare gli impatti sociali. Se prima avevamo soltanto un osservatorio, quello rappresentato dalla classe medica, oggi gli “osservatori” sono diversi e in grado di poter svolgere egregiamente una valutazione dei bisogni di salute, che dovrebbe avere una valenza “collettiva” invece che una dimensione “individuale”.

Si assiste ad un settarismo che non solo non è di aiuto ma induce la politica a perseguire le proprie scelte di non “parlare” di politiche sanitarie o dare alle stesse un’accezione del tutto forviante. I piani di investimento in termini di salute si limitano a valorizzare battaglie di retroguardia, che hanno come unico scopo il consenso, elettorale o personale.

Le professioni sanitarie, la nostra in particolare, sono impegnate a sollevarsi da crisi profonde di identità e tendono ad inseguire le volubili volontà governative cercando di strappare ambiti di esercizio che nulla hanno a che vedere con quello che dovrebbe essere “la tutela della salute” garantita dalla Repubblica Italiana.

In questo senso provo un forte senso di smarrimento, perché essere un professionista della salute e non poter concorrere al miglioramento della stessa nella popolazione ma limitarmi esclusivamente ad eseguire in maniera monotona percorsi pre confezionati e soprattutto condizionati dalle politiche economiche è piuttosto demotivante.

In un momento in cui gli Infermieri battagliano sull’art.49, sul 566, sulle competenze avanzate e asseriscono di essere pronti, i cittadini di cui dovrebbero essere garanti perdono in termini di aspettativa di vita, di accesso alle cure, di equità e omogeneità dei servizi sanitari, io provo un po’ di sincera vergogna, voi?

Piero Caramello

 

Redazione Nurse Times

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