L’infermiere deve compensare l’assenza di OSS o no?

Sì, ne siamo consapevoli: il problema demansionamento e la “questione” infermieri-OSS è diventata oramai un ritornello noioso, dai contenuti e dai contorni che dovrebbero essere chiari a tutti da tempo. Eppure non è così. Complici alcune informazioni sbagliate (VEDI) divulgate da siti che dovrebbero occuparsi di “informazione e consulenza legale”, dall’ignoranza (o mala fede…?) di molti dirigenti, dai deliri di alcuni sindacati (VEDI) contro ogni evidenza legale, dall’indottrinamento confuso e contraddittorio delle Università (dove spicca un tirocinio clinico fatto di pura manovalanza e di deliri antiscientifici, VEDI) e dall’impunità di molte aziende che vessano a proprio vantaggio (economico) i lavoratori, infatti, si è ancora sospesi in una sorta di limbo. Dove tutti fanno ciò che pensano e che credono, a seconda di come si svegliano la mattina. In barba a profili professionali, codici deontologici, leggi e sentenze.

E perciò capita, ancora oggi, di leggere innumerevoli castronerie social, evacuate da quelli che dovrebbero essere dei professionisti. E che fanno davvero gelare il sangue: La padella, il pappagallo, la federa rivolta verso la finestra, la sanificazione dell’unità del paziente, il carrello lucido, ecc. fanno parte anche del nostro lavoro”… “Tra le varie competenze dell’infermiere c’è anche l’assistenza di base! E finitela con sta cagata che spetta solo agli OSS!”… “Se un infermiere deve sistemare un letto o svolgere mansioni da OSS non è un problema”… “Essere infermiere è anche lavare padelle, tanto di cappello”…

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“Tanto di cappello”, addirittura… Fortunatamente c’ha pensato l’AADI, Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, a fare chiarezza sulla questione. Ancora una volta. Con un pezzo piuttosto lungo, dove tratta la questione in modo decisamente esauriente. Riportiamo qui, per intero, il pezzo (VEDI) firmato dal presidente Dott. Mauro Di Fresco.

Non competendo all’infermiere professionale lo svolgimento delle mansioni igienico-domestico-alberghiere, la soppressione delle scuole per infermieri generici, operata dall’art. 3 della legge 3 giugno 1980 n. 243, ha prodotto in capo al legislatore problemi di coerenza dell’incipit “intellettuale” riconosciuto all’infermiere professionale secondo la previsione dell’art. 2229 C.C. e, quindi, il divieto di assegnargli le mansioni assistenziali dirette in assenza dell’infermiere generico.

Si è reso quindi indispensabile individuare una diversa figura subalterna all’infermiere professionale, in sostituzione dell’infermiere generico che non sarebbe più stato disponibile dopo la soppressione delle scuole, capace di garantire l’accudimento del paziente e lo svolgimento di tutte quelle attività di pulizia e assistenza degli atti quotidiani di vita.

La scelta del legislatore è caduta sul personale ausiliario, collocato nella declaratoria delle qualifiche funzionali, in posizione immediatamente inferiore a quella dell’infermiere generico.

Gli ausiliari, non essendo però in grado di svolgere le mansioni igienico-domestico-alberghiere in contesti delicati perché impreparati, hanno quindi subito una rapida riqualificazione professionale che ha rivoluzionato formalmente e sostanzialmente il profilo funzionale e le competenze di questa categoria.

Immediatamente dopo la soppressione delle scuole per infermieri generici, già nei policlinici universitari, l’agente socio-sanitario (cioè il semplice ausiliario di 3° livello funzionale e retributivo), grazie al D.P.C.M. 24 settembre 1981, è stato riqualificato in agente socio-sanitario specializzato di 4° livello: “Svolge mansioni integrate relativamente alle operazioni di pulizia … ritiro e consegna della biancheria, medicinali, vitto, materiali sanitari e organici, pulizia, preparazione ed eventuale disinfezione del materiale sanitario e dei locali o attrezzature assegnati, di trasporto dei rifiuti e del materiale infetto. E’ assegnato al rifacimento del letto, pulizia del malato, cambio della biancheria e aiuto nelle operazioni fisiologiche … pulizia degli ambienti e dell’unità di vita del paziente”.

Non a caso, la succitata declaratoria dell’agente socio-sanitario specializzato è perfettamente sovrapponibile a quella relativa all’infermiere generico nella parte prevista dall’art. 6/a del D.P.R. n. 225/1974: “Assistenza completa al malato, particolarmente in ordine alle operazioni di pulizia e di alimentazione, di riassetto del letto e del comodino del paziente e della disinfezione dell’ambiente …”.

Parimenti, anche il S.S.N. si è adeguato e il legislatore, attuando l’art. 1, co. 4 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 che aveva previsto nuove figure in sanità, all’art. 1, co. 1 del D.M. 10 febbraio 1984 (G.U. 15 febbraio 1984 n. 45) assegnò al personale ausiliario di 3° livello ulteriori mansioni portandolo al 4° livello: “L’ausiliario socio-sanitario specializzato assicura le pulizie negli ambienti di degenza ospedaliera ivi comprese quelle del comodino e delle apparecchiature della testata del letto. Provvede al trasporto degli infermi in barella ed in carrozzella ed al loro accompagnamento se deambulanti con difficoltà. Collabora con il personale infermieristico nelle pulizie del malato allettato e nelle manovre di posizionamento del letto. E’ responsabile della corretta esecuzione dei compiti che sono stati affidati dal caposala e prende parte alla programmazione degli interventi assistenziali per il degente”.

Ma cosa significa “Collabora con il personale infermieristico nelle pulizie del malato allettato e nelle manovre di posizionamento del letto”?

Se il legislatore avesse utilizzato la locuzione “personale infermieristico” riferendosi all’infermiere professionale nelle attività di sostituzione dell’infermiere generico, non solo avrebbe vanificato la ratio riqualificatoria dell’agente socio-sanitario, ma, soprattutto, avrebbe degenerato la natura intellettuale dell’infermiere professionale (art. 2229 C.C.), rendendo inutili e superflui l’albo, i Collegi professionali e l’abilitazione professionale, che lo Stato impone agli infermieri professionali (non ai generici e al personale ausiliario).

Non solo! Se fosse vero che anche il professionale avrebbe dovuto svolgere queste mansioni, avrebbe anche violato le regole giuslavoristiche di cui all’art. 2103 C.C. e all’art. 1, co. 3, D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761, che hanno stabilito il principio gerarchico della separazione dei ruoli e delle mansioni del personale sanitario: “Il personale è iscritto nei suddetti ruoli sulla base dei profili professionali, … determinati in relazione ai requisiti culturali e professionali e alla tipologia del lavoro”.

In poche parole, l’infermiere professionale sarebbe stato contrattualmente degradato, di fatto, a mansioni di 5° livello, permanendo, paradossalmente e contraddittoriamente, al 7° livello funzionale, al pari delle altre professioni “intellettuali”.

Quindi, la locuzione “personale infermieristico” non può essere riferita agli infermieri professionali, per le evidenti succitate contraddizioni esegetiche e legislative, ma deve necessariamente riferirsi agli infermieri generici.

Basterebbe già questo breve excursus per dimostrare, senza timore di essere smentiti, che la professione di Infermiere Professionale non si può ritenere un’attività elementare avente contenuto mansionale semplice ed esecutivo privo di responsabilità, ma spicca un elevato contenuto scientifico e tecnico che motiva, tra l’altro, l’inarrestabile evoluzione professionale fino ai più alti livelli universitari; non è quindi possibile sostenere che le attività igienico-domestico-alberghiere di assistenza diretta alla persona possano essere, di fatto, compiute dall’infermiere professionale.

Diversamente significherebbe ammettere che una qualifica professionale, deputata a cambiare i pannoloni, è culturalmente e tecnicamente idonea a partecipare al concorso per la dirigenza.

Un assurdo kafkiano: un dirigente che cambia i pannoloni!

Nemmeno l’applicazione del precedente regime dello ius variandi poteva giustificare e legittimare l’adibizione dell’infermiere a mansioni elementari o, comunque, non altamente professionalizzanti, che invece attengono alle figure ausiliarie dell’assistenza quali sono, appunto, l’Agente Socio-Sanitario Specializzato (A.S.S.S.), l’Operatore Tecnico addetto all’Assistenza (O.T.A.) e l’Operatore Socio-Sanitario (O.S.S.).

Infatti l’evoluzione normativa che ha interessato l’infermiere professionale si è sviluppata in melius fino al riconoscimento della piena autonomia professionale e della carriera universitaria.

Tale tesi è stata confermata dalla Federazione Nazionale Collegi Infermieri il 16 maggio 1994 con prot. n. 85/UL/94 (all. 12), in riscontro alla denuncia di un infermiere che lamentava, con logica giuridica stringente, l’illegittimità delle seguenti mansioni assegnate, di fatto, all’infermiere professionale: preparazione e distribuzione delle colazioni, riassetto del letto, uso di padelle e pappagalli, cure igieniche al malato, svuotamento delle sacche di urina.

La Federazione, stante quanto previsto dall’art. 2229 del codice civile, scrisse che non compete all’infermiere diplomato, pulire il malato e svolgere queste attività, perché tali prestazioni ricadono sull’infermiere generico e, in sua assenza (considerata la soppressione dei corsi del generico avvenuta nel 1980 che quindi rendeva tale figura ad esaurimento) sul personale ausiliario subalterno all’infermiere professionale.

Le mansioni lamentate dalla Federazione non sono attribuibili all’infermiere professionale, così come prevede anche il Capitolo 1 dell’Accordo di Strasburgo del 25 ottobre 1967, ratificato in Italia con legge 15 novembre 1973 n. 795 (che portò alla successiva redazione del D.P.R. n. 225/74).

Con articolo pubblicato nella rivista “L’infermiere” di marzo-aprile 1993 pag. 46, il Prof. Avv. Salvatore Carruba, dirigente generale del Ministero della Sanità, sosteneva che all’infermiere non compete preparare e distribuire la colazione e il vitto (all. 13).

Anche la legge 10 agosto 2000 n. 251 ha contribuito a rafforzare il ruolo sempre più pregnante dell’infermiere, stabilendo l’apertura delle classi universitarie per il conseguimento del diploma di laurea in Infermieristica e le relative specializzazioni e master oltre all’istituzione del dirigente delle professioni infermieristiche e benché la maggioranza degli infermieri professionali siano privi del diploma di laurea, sono stati equiparati agli infermieri laureati e collocati nella categoria contrattuale D (difatti la declaratoria delle qualifiche non distingue il laureato dal diplomato).

La legge stabilisce che “gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche svolgono, con autonomia professionale, attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza. Lo Stato e le regioni promuovono la valorizzazione e la responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo delle professioni infermieristico-ostetriche al fine di contribuire alla realizzazione del diritto alla salute, al processo di aziendalizzazione nel Servizio Sanitario Nazionale, all’integrazione dell’organizzazione del lavoro della sanità in Italia così come in quelle degli altri Stati dell’Unione europea. Il Ministero della Sanità emana linee guida per l’attribuzione in tutte le aziende sanitarie della diretta responsabilità e gestione delle attività di assistenza infermieristica e delle connesse funzioni”.

L’esegesi qui esposta, eliminerebbe ogni dubbio sulla confusione dei ruoli, lasciando separato l’infermiere professionale dalla riforma finalizzata a sopperire la carenza dell’infermiere generico, come ab initio previsto e, coerentemente, spiegherebbe la ratio della nuova figura ausiliaria creata proprio a rinforzo del personale infermieristico generico, oramai sempre più esiguo a causa della soppressione delle scuole.

Si ricordi, tra l’altro, la perfetta sovrapponibilità tra il D.M. succitato e l’art. 6/a del D.P.R. n. 225/74

, a riprova dello scopo sostitutivo dell’ausiliario specializzato in ragione della riduzione organica dell’infermiere generico.

Il discrimine tra l’ausiliario socio-sanitario e quello specializzato è individuato autenticamente nello stesso decreto: “Il personale, che non svolge attività di assistenza sanitaria nei confronti dell’utente, può passare da una posizione funzionale all’altra (cioè dal 3° al 4° livello) dopo un periodo di servizio di anni due nella posizione funzionale inferiore e di superamento di apposito corso”.

Infatti, L’ausiliario socio-sanitario di 3° livello era deputato esclusivamente alle: “pulizie negli ambienti di degenza ospedaliera, diurna e domiciliare, ivi comprese quelle del comodino e delle apparecchiature della testata del letto. Provvede al trasporto degli infermi in barella ed in carrozzella ed al loro accompagnamento se deambulanti con difficoltà”.

Quindi è l’assistenza diretta al paziente che distingue il semplice ausiliario da quello specializzato, a sostegno della tesi che qui si vuole rafforzare e cioè che la specializzazione attiene alle cure del malato. E’ l’assistenza al malato che innova la figura ausiliaria, non più dedicata alle sole pulizie ambientali, ma ai bisogni dell’utente; bisogni individuati dall’infermiere professionale e soddisfatti dall’agente socio-sanitario specializzato, ora O.S.S..

Questo è il nocciolo del moderno nursing: la teoria dell’assistenza scientifica, mirata e professionale.

Un modello che non lascia l’assistenza alle improvvisazioni, ma ad approcci studiati secondo tecniche di soluzione scientifica che costituiscono il fondamento dei più avanzati sistemi sanitari moderni.

Successivamente, con D.M. 15 giugno 1987 n. 590, è stato ammodernato il corso di riqualificazione per gli agenti soci-sanitari e sono state specificate le tre figure ausiliarie presenti nel sistema sanitario: ausiliario assistente; ausiliario socio-sanitario e ausiliario socio-sanitario specializzato, l’ultimo finalizzato anche alla cura del paziente.

Così il legislatore, affiancando l’infermiere generico all’ausiliario socio-sanitario specializzato, completava la formazione pratica della nuova figura ausiliaria che avrebbe sostituito il compagno di assistenza diretta cioè il generico e garantito i bisogni primari della persona, sotto il controllo e le direttive dell’infermiere professionale, unico professionista dotato di progettualità e verifica assistenziale.

Naturalmente, una struttura sanitaria che intenda garantire questo elevato livello qualitativo assistenziale, deve procurarsi un adeguato organico di personale; così il D.M. Sanità 13 settembre 1988 stabilì, all’art. 4, la presenza di un ausiliario ogni posto letto nelle terapie intensive, uno ogni 4 letti in lungodegenza e uno ogni 5 letti per i reparti di elevata assistenza di cui all’art. 3 (cardiochirurgia, nefrologia, ematologia, ecc.) e nel resto dei servizi, uno ogni 7 posti letto; anche nelle terapie intensive deve essere garantita la cura del paziente da parte di idoneo personale ausiliario.

Nonostante ciò, quasi sempre i reparti sono pressoché sprovvisti dell’organico richiesto per garantire l’accudimento semplice dei pazienti e si sfrutta l’infermiere per sopperire alla carenza.

Successivamente, la figura ausiliaria ha richiesto ulteriori sviluppi e competenze verso un maggior ampliamento funzionale in risposta alle maggiori pretese di qualità assistenziale e in risposta all’inarrestabile evoluzione tecnico-scientifica imposta dalla complessità sociale.

Quindi, con il D.P.R. 28 novembre 1990 n. 384, sono state soppresse tutte le tre figure ausiliarie e, all’art. 1, co. 2, è stato introdotto il nuovo profilo dell’O.T.A – Operatore Tecnico addetto all’Assistenza.

La locuzione “su indicazione o in collaborazione” crea nuovamente dei dubbi sull’esatta posizione dell’infermiere professionale nell’assistenza diretta al malato e conferma l’incompetenza semantica del legislatore in materia perché insufficiente ad esprimere con chiarezza la sua volontà.

La prova che l’infermiere continui a gestire l’assistenza, in quanto è il professionista che si avvale del personale subalterno quando egli stesso e non l’amministrazione lo reputa opportuno, è fornita, ancora una volta, dal contesto e dal pregresso normativo in materia.

In primis valgono anche per l’O.T.A e per l’O.S.S. le stesse deduzioni esegetiche espresse per l’agente socio-sanitario specializzato (visto che seguono l’evoluzione della figura ausiliaria di supporto).

La collaborazione tra ausiliario e infermiere, sbandierata da più parti, non potrà mai essere intesa come parità di attribuzione mansionale e responsabilità, altrimenti si violerebbe il principio dello ius variandi che vieta la promiscuità mansionale e si appianerebbe la scala gerarchica oltre la declaratoria delle qualifiche contrattuali che postula una gerarchia stretta di evidente sinallagmaticità: mansioni=qualifica=retribuzione, con ovvie conseguenze anche sul piano risarcitorio per demansionamento: “La cogestione dei compiti non comporta infatti una riduzione solo quantitativa delle mansioni, ma anche qualitativa, che abbassa il livello professionale dell’attività svolta” – S.C., Lav., 11 gennaio 1995 n. 276, pres. Buccarelli, est. Aliberti, in D&L 1995, 961.

E’ così che le aziende sanitarie vogliono intendere la collaborazione, cioè come intercambiabilità dell’O.T.A. o dell’O.S.S. con l’infermiere, ma ciò non è possibile perché il personale subalterno rimane sempre subalterno e non potrebbe mai sostituire l’infermiere quando è assente, anzi, qualora ciò avvenisse costituirebbe reato (art. 348 C.P.).

Quindi nella pratica, la c.d. collaborazione si esprime di fatto in uno sfruttamento, perché l’infermiere potrebbe sostituire l’ausiliario, ma l’ausiliario non potrebbe mai sostituire l’infermiere; una siffatta

collaborazione, praticamente a senso unico, avvantaggia solo le aziende perché locupletano sul risparmio di figure sostituite forzosamente dall’infermiere; come dire due al prezzo di uno!

Pariteticamente e per assurdo, anche la collaborazione tra medico e infermiere potrebbe indurre l’esegeta a considerare le loro mansioni sovrapponibili: ma non è così e, quindi, non può essere così tra l’O.T.A. e l’infermiere.

Il Decreto precisa che l’O.T.A. opera “sotto la responsabilità del caposala e, in sua assenza, dell’infermiere professionale”.

La subalternità è qui evidente con il termine “opera sotto la responsabilità” ed è rimarcata dal Decreto stesso che pone l’infermiere, nelle attività in collaborazione con l’ausiliario, in dominus rispetto ad esso.

Infatti, si deve ricordare, ancora una volta, la separazione dei ruoli stabilita dall’art. 1, co. 3 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 (cit.).

Il metus che sottopone gerarchicamente l’ausiliario all’infermiere, non permette all’infermiere di vedersi attribuire in primis e in toto specifiche mansioni di assistenza diretta, come se tali attività concernessero principalmente il proprio ruolo.

Se all’infermiere spettasse sia l’assistenza diretta che quella indiretta, l’ausiliario sarebbe inutile perché non avrebbe senso creare, all’interno della declaratoria funzionale, una figura inferiore all’infermiere per duplicarne le mansioni; ergo, considerato, invece, che questa qualifica è prevista, è necessario individuarne il contenuto mansionale affinché le mansioni non si sovrappongano con quelle dell’infermiere.

In conclusione, l’infermiere deve permanere nel suo specifico ruolo per tutta l’attività lavorativa e non può degradare a livelli inferiori quando svolge determinate mansioni; diversamente sarebbe atipico e contrario all’ordinamento giuridico prevedere una specifica qualifica (ausiliaria) eventuale, cioè destinata esclusivamente a svolgere alcune mansioni dell’infermiere quando questi è stanco o oberato.

La presenza di una specifica qualifica presuppone un ambito mansionale proprio ed esclusivo; diversamente si renderebbe necessaria una specifica norma per derogare ai principi dell’ordinamento e ai dettami giurisprudenziali in materia.

Una tesi che postuli la promiscuità mansionale fra due qualifiche così diverse sul piano contrattuale, contenutistico, scolastico e didattico, sarebbe un azzardo.

Ed allora, se poniamo il ruolo dell’infermiere professionale al centro del sistema assistenziale (dotandolo quindi di autonomia funzionale propria e non derivata), insieme agli altri operatori sanitari, così come la legge identifica e definisce le professioni sanitarie (senza emarginare l’infermiere) ed applichiamo ad esso le stesse regole che valgono per tutti gli altri lavoratori, senz’altro si realizzerà un sistema sanitario più aderente alle regole del diritto, impedendo, a chi volesse vedere nell’infermiere il tuttofare della sanità italiana per risparmiare sul personale ausiliario, di forzarne il ruolo, riconsegnando a questa preziosa figura anche la dignità che merita – Cass. Lav., 9 maggio 2018 n. 11169.

All’infermiere è richiesto di eseguire le prestazioni assistenziali indirette connotate da “intellettualità” per cui è prevista una specifica abilitazione professionale e identificare i bisogni del paziente per pianificare l’assistenza indiretta, fornendo le direttive operative al personale subalterno affinché esegua le mansioni igienico-domestico-alberghiere.

Diversamente, se riteniamo che l’infermiere professionale debba svolgere ogni attività che riguardi l’assistenza al paziente, avremmo rivoluzionato l’intero sistema giuridico e contrattuale, scardinando i pilastri regolatori del lavoro e avremmo creato l’unica figura mobile di lavoratore che sale e scende la scala gerarchica secondo i gradimenti del datore di lavoro e che, a differenza della miriade di altre professioni e

mestieri, ricopre due distinte ed opposte posizioni funzionali nella declaratoria contrattuale: quella più alta che pretende l’abilitazione dello Stato, l’iscrizione all’Ordine professionale e il diploma di laurea e quella più bassa che richiede il semplice diploma di scuola media ed, eventualmente, un breve corso di formazione di soli tre mesi.

Questo teorema è insostenibile ed è da scartare: non è neppure immaginabile affermare che l’infermiere sia un mero esecutore dell’assistenza diretta e che l’ausiliario lo aiuti solo se presente.

In questo caso tutta l’assistenza ricadrebbe esclusivamente sull’infermiere e andrebbe rielaborata radicalmente l’intera esegesi oltre la teoria classica del diritto; cosa impossibile!

Quindi, non resta che acclarare l’unica interpretazione possibile.

Le attività dell’ausiliario, poste in collaborazione con l’infermiere, devono essere esegeticamente lette nell’unica direzione possibile, cioè nel senso che è sempre l’infermiere che decide la sua compresenza con l’O.S.S. e altri ausiliari perché, in talune circostanze, la presenza di una maggiore competenza assistenziale clinica garantita dall’infermiere, emargina alcune criticità, senza contare che è compito dell’infermiere e non dell’ausiliario valutare le condizioni del paziente che richiedono la tempestiva chiamata del medico – S.C., IV Penale, n. 24573 del 20 giugno 2011.

Questa mia esegesi almeno finora non ha trovato rivali, soprattutto sul piano giurisprudenziale; sul piano teorico attendo repliche costruttive e non semplici prese di posizioni, sterili, fantasiose e stereotipate.

Qui si tratta il diritto, non il sentimento; per il sentimento c’è sempre Calcutta ed è lì che molti teorici del tuttofare dovrebbero andare coerentemente ad impegnarsi, invece di pretendere uno stipendio migliore paragonandosi ai colleghi inglesi.

Nei paesi di diritto c’è il diritto e l’umanizzazione delle cure organizzate dal diritto e nel diritto, non nell’anarchia paternalistica che ci ha portato alla rovina.

Calcutta ha bisogno di voi; se partirete, chi crede nella professionalità potrà crescere e migliorare l’assistenza perché senza di voi la crescita è garantita!

Dott. Mauro Di Fresco Presidente AADI

Beh… “Tanto di cappello”.

Alessio Biondino

Redazione Nurse Times

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