PsicoPoint – L’infermiere in carcere. Quando il lavoro può tramutarsi in un ergastolo

Benvenuti al primo appuntamento con la rubrica settimanale di Nurse Times PsicoPoint, spazio dedicato all'analisi della psiche degli infermieri svolta dal dottor Giuseppe Marino, psicologo che nelle prossime settimane analizzerà da vicino il mondo dei professionisti sanitari.

Benvenuti al primo appuntamento con la rubrica settimanale di Nurse Times PsicoPoint, spazio dedicato all’analisi della psiche degli infermieri svolta dal dottor Giuseppe Marino, psicologo che nelle prossime settimane analizzerà da vicino il mondo dei professionisti sanitari.

La psicologia è l’ABC dell’essere umano. Teoricamente, Psicologia equivale al nostro secondo nome; nella realtà pratica, ognuno di noi è psicologia. Riflessioni, decisioni, comportamenti: ma anche sentimenti, dolci emozioni e passioni travolgenti. Ogni uomo custodisce dentro di se il significato di psicologia, come fosse un tesoro di cui non sempre si è consapevoli. PsicoPoint vuole essere una piccola bussola per dare inizio a questa splendida ricerca: una rubrica con l’intento di rispondere alle domande più rilevanti, dare spazio alle curiosità ed accendere l’interesse per questa materia tanto smisurata ed affascinante, quanto l’animo di ognuno di noi.

L’INFERMIERE IN CARCERE: Quando il lavoro può tramutarsi in un ergastolo

Vi ricordate il vostro primo giorno di tirocinio? Quel giorno vi eravate alzati dal letto ancor prima che suonasse la sveglia: qualcuno di voi non era neppure riuscito ad addormentarsi…

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La colazione? velocissima: era molto più importante una buona rassegna allo specchio, per sistemare ogni particolare e sostenersi con qualche frase motivante! C’era l’ansia da prestazione, ma anche una voglia incredibile di mettersi in gioco! Toccare, vedere, sentire: insomma, esserci! E magari cambiare qualcosa, dare il proprio contributo: lasciare una traccia, impegnarsi per qualcosa di bello e di buono. C’era la consapevolezza che qualcosa del nostro mondo stesse cambiando.


E adesso? Quante sveglie impostiamo o quanto lontano dal letto la mettiamo per costringerci ad alzarci? Sentiamo ancora l’entusiasmo nel prepararci per andare a lavoro? E quella piccola ansia positiva che ci correva lungo la schiena? C’è ancora o ci sentiamo frenati? Cosa è successo?

Può capitare, durante il nostro percorso professionale che non tutto vada come ci eravamo aspettati: a volte va meglio, ma ci sono volte in cui pare che tutto vada storto. Sembra che l’ambiente di lavoro non sia come speravamo, o che nel tempo sia andato peggiorando. Magari incontriamo un gruppo di colleghi non del tutto accomodanti, indisponenti o peggio ancora presuntuosi o competitivi. Vi sono capitate o vi accadono vicende simili? E quando accade, vi sentite stanchi di sopportare, ma anche impotenti di fronte a tante dinamiche che non trovate corrette o che addirittura pensate ingiuste?

Ci sono momenti a lavoro in cui vi sentite le manette ai polsi? Come se quel posto di lavoro fosse in realtà…una prigione!?

Immaginate ora di prendere spontaneamente parte ad un esperimento sociale. Prima di entrare nel vivo della prova, lo psicologo coordinatore vi invita a fare una serie di test a cui risultate persone tendenzialmente equilibrate, mature e senza particolari segni di devianza psicologica. Siete risultati idonei e siete in 24! Perfetto: si comincia.

Venite divisi in due gruppi, un gruppo dovrà fingere di vestire i panni di alcuni carcerati, gli altri dodici dovranno impersonare invece un manipolo di guardie. Per due settimane dovrete vivere dentro una prigione ricostruita ad hoc per l’esperimento sociale. Secondo voi cosa accadrà?

Pensateci un attimo, poi continuate a leggere l’articolo.

L’esperimento che ho introdotto fu costruito nel 1971 dal professor Philp Zimbardo: qualcuno ne avrà già sentito sicuramente parlare, è il celebre “Esperimento della Prigione di Stanford”.

Durante l’esperimento Zimbardo propose a 24 volontari di giocare a guardie e ladri per circa due settimane: 12 persone avrebbero indossato ampie divise numerate, berretti di plastica e una catena alla caviglia; altre 12 si sarebbero travestite da poliziotti, indossando vere e proprie uniformi, occhiali da sole riflettenti (per non mostrare le emozioni comunicate tramite lo sguardo) ed erano muniti di manganelli, fischietti e manette.

L’esperimento fu drammatico. Dopo solo due giorni si verificarono momenti di violenza, psicologica e fisica. Da una parte i carcerati provarono tra loro ad allearsi, si strapparono le vesti e si barricarono all’interno delle celle. I poliziotti adottarono delle politiche disumane. Per intimidire i prigionieri cominciarono ad umiliarli, facendo loro intonare canzoni oscene, spezzando i legami venutisi a creare tra i compagni di cella, forzandoli in prestazioni fisiche molto faticose e costringendoli a defecare all’interno di secchi che non avrebbero potuto svuotare.

Tra le punizioni inflitte, anche quella di lavare a mani nude le latrine. I prigionieri tentarono una fuga di massa, difficilmente contenuta (Attenzione, perché è fondamentale mettervi a conoscenza di come queste persone in realtà non fossero davvero obbligate a rimanere lì: potevano andarsene quando volevano!?! .. allora perché organizzare una fuga?). Al quinto giorno erano evidenti segni di disgregazione individuale e collettiva: sia tra i carcerati che tra le guardie. Si era perso il contatto con la realtà. Ognuno agiva secondo dei ruoli prestabiliti – secondo schemi d’azione precostituiti e non ragionati. Zimbardo fu costretto a terminare in anticipo l’esperimento.

Cosa dimostrò l’esperimento della Prigione di Stanford?

I 24 volontari all’esperimento avevano tramutato la simulazione in un vero e proprio contesto di vita reale. Per tutti i partecipanti la finzione della prigione si era tramutata in verità. Per loro quel carcere era reale.

Secondo Zimbardo, ogni volta che un individuo si confronti con un determinato ambiente, la propria identità personale sarebbe coinvolta in modo vivo durante l’acquisizione delle regole che coordinino il contesto stesso. Questa assunzione di norme è un processo assolutamente naturale: tutti noi abbiamo bisogno di capire le regole di ogni circostanza per poterci orientare nel modo più opportuno! Ma se è vero che comprendere le norme è un processo ordinario, è altresì attendibile pensare che un’attenta riflessione sulle stesse ed una consapevolezza della loro funzione sia la chiave di volta per non finire in prigione!

Cosa successe ai ragazzi di Stanford? Accadde che tutti accettarono una serie di leggi e regole senza domandarsi troppo cosa potessero comportare. Entrarono in un ruolo piuttosto che in un altro senza soffermarsi sulle effettive caratteristiche da mantenere, soprattutto in quell’ambito. Ecco allora che entrò in gioco quello che viene chiamato meccanismo di depersonalizzazione, ovvero quella dinamica di gruppo per cui “se tutti fanno così, allora sarà giusto: lo faccio anche io”.

Questo meccanismo riduce i sensi di colpa, di vergogna e le conseguenze delle proprie azioni a fronte di un comportamento comune (positivo o negativo che sia). Si baratta una vera consapevolezza di se con una prigione, dove la responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni è distribuita in modo così omogeneo che nessuno sembra più veramente colpevole.

In questo modo, però, l’individuo viene meno: esattamente come se decidessimo spontaneamente di vivere un ergastolo.

Per concludere, pensiamo a quante volte a lavoro abbiamo trascurato noi stessi, facendo qualcosa che non ci era chiaro, ma che non abbiamo approfondito; quante volte abbiamo lasciato correre, non ci siamo fermati a riflettere, a leggere, ad informarci, a formarci o confrontarci con i colleghi.

Riflettiamo su quante volte siamo rimasti in silenzio oppure non abbiamo ascoltato chi aveva qualcosa da dirci. Ed infine pensiamo anche solo per un attimo come possa cambiare la nostra vita professionale se ci impegnassimo quotidianamente a restituire a noi stessi un po’ di quell’interessata libertà di pensiero, quella voglia di bello e di buono che anche se ci teneva sulle spine il primo giorno di tirocinio, ci faceva anche sentire vivi e pronti a cambiare il mondo: e forse allora, il mondo lo cambieremo davvero. Se non tutto, almeno il nostro.

“I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede” .. tutto questo vi spaventa?

Non perdete il prossimo appuntamento con la rubrica settimanale del dott. Giuseppe Marino dedicata al viaggio nella psiche degli infermieri, il prossimo articolo della rubrica “PsicoPoint”, dal quale è tratta la precedente citazione, riguarderà il tema del pregiudizio.

Simone Gussoni

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Dott. Simone Gussoni

Il dott. Simone Gussoni è infermiere esperto in farmacovigilanza ed educazione sanitaria dal 2006. Autore del libro "Il Nursing Narrativo, nuovo approccio al paziente oncologico. Una testimonianza".

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