Regionalismo differenziato: occasione di crescita anche per il Meridione?

Riprendiamo l’analisi svolta per Il Sole 24 Ore dal presidente di Confindustria Reggio Calabria, Giuseppe Nucera, e dall’economista Matteo Olivieri.

Sebbene le espressioni “regionalismo differenziato” e “secessione dei ricchi” siano usate sempre più spesso in maniera intercambiabile nel dibattito pubblico, esse hanno in realtà davvero poco in comune. Riprova ne è il fatto che, secondo il recente documento del Senato della Repubblica, in ben 13 delle 15 regioni a statuto ordinario sono state attivate a vario titolo le procedure previste dall’articolo 116 della Costituzione per richiedere allo Stato maggiori forme di autonomia legislativa. Tra esse si ritrovano anche le regioni del Mezzogiorno, tra cui Campania e Calabria, che di certo non brillano per reddito procapite nelle statistiche ufficiali.

La prospettiva del regionalismo differenziato è destinata dunque a condizionare il panorama politico italiano dei prossimi anni. Per questo motivo, il centro della discussione andrebbe spostato dal “se” conviene alla Regioni una maggiore forma di autonomia, al “come” realizzarla al meglio, tenuto conto del vincolo di unità e di coesione nazionale previsto dalla nostra Costituzione.

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È indubbio, infatti, che qualora l’autonomia riuscisse a esaltare le specificità e le competenze regionali, essa potrebbe diventare una straordinaria occasione di sviluppo dal basso, nello spirito di Alexis de Tocqueville, quando afferma, ne La democrazia in America: “Presso le grandi nazioni, dove domina l’accentramento, il legislatore è obbligato a dare alle leggi un carattere uniforme che non tiene conto della diversità dei luoghi e dei costumi; ignaro dei casi particolari, può procedere soltanto attraverso regole generali; gli uomini sono allora obbligati a piegarsi alle necessità della legislazione, perché la legislazione non può adattarsi ai bisogni e ai costumi degli uomini; e questo è una grande causa di torbidi e di miserie”.

Basti pensare che tra le materie “delegabili” (su cui le Regioni si vedrebbero riconosciute la esclusiva potestà legislativa, nei limiti di quanto previsto dalla Costituzione) ve ne sono molte di importanza strategica, come la “tutela della salute”, il “governo del territorio”, la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, o la “ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi”. Si tratta di temi “strategici” che, se amministrati con lungimiranza e innovazione politica, potrebbero contribuire a rilanciare nel mondo l’immagine delle regioni d’Italia e far emergere quanto di positivo e valido già oggi vi si trova, lasciando intravedere le traiettorie di sviluppo economico dai tratti distintivi e peculiari delle singole Regioni.

È noto, infatti, che alcune Regioni hanno una sensibilità ambientale più spiccata di altre, o vocazioni industriali diverse dalle altre. Tuttavia, per decenni si sono viste attribuire egualmente investimenti pubblici, spesso discutibili e impattanti, nel tentativo di forzare i processi di industrializzazione, che però non hanno creato sviluppo socioeconomico. Le norme costituzionali consentirebbero pertanto alle singole Regioni di prendere in mano le redini del proprio destino e diventare protagoniste della politica dei propri territori, dimostrando al contempo di essere capaci di implementare politiche avanzate di “governo e tutela del territorio”, come già oggi le vediamo attuate in Trentino Alto Adige, o di “ricerca scientifica e tecnologica” ritagliate sulle caratteristiche produttive dei singoli territori, esattamente come si fa in Veneto o in Emilia Romagna.

Una maggiore autonomia consentirebbe anche di attuare quelle politiche forti di internazionalizzazione che al momento mancano in regioni come la Calabria, dove si riscontra una cronica carenza di attrazione di investimenti esteri (diversamente da quanto accade in Lombardia), senza dipendere dai tempi e dalle volontà del Governo centrale. Insomma, il regionalismo differenziato può rappresentare anche per l’economia meridionale quella chiave di volta attesa invano per decenni, tramite cui dare forma alle aspettative e alle speranze del Mezzogiorno e scrollarsi di dosso quell’immagine retrograda di essere solo il mercato di sbocco delle merci, dei servizi e delle tecnologie spesso vetuste prodotte al Nord.

Saremo pronti al grande passo? Il Mezzogiorno saprà dimostrare di essere capace di elaborare modelli politici ed economici virtuosi, in grado di accrescere il benessere dei propri cittadini attraverso scelte ambientali o industriali innovative, generate a partire dalle esigenze specifiche di queste regioni, anziché replicare modelli impersonali e irrealistici, spesso calati dall’alto, che non hanno nulla a che fare con il Mezzogiorno e i meridionali? Saremo abbastanza maturi da decidere di farci rappresentare da una classe politica competente, dotata di autonomia decisionale e non legata al parere preventivo dei “padrini romani”, ma che sia anzi capace di elaborare strategie di sviluppo a partire esclusivamente dalle risorse del territorio, ponendo così fine all’eterno alibi dei “nemici esterni” che vogliono il male dei nostri territori?

Riteniamo che al Mezzogiorno non manchino le energie e le competenze giuste e, anzi, vediamo che tanti si misurano quotidianamente coi problemi del territorio senza timori reverenziali, rinnovando ogni giorno la sfida di immaginare scenari nuovi rispetto ai problemi che si aprono davanti a noi e che richiedono risposte innovative, e non scritte da altri. Le possibilità di dar vita a una politica che voli alto ci sono tutte e, sebbene l’attuale classe politica non brilli certo per impegno e lungimiranza, siamo convinti che i meridionali – chiedendo lavoro vero e non assistenzialismo mascherato da pie intenzioni – potrebbero ricevere risposte esaustive dai nuovi assetti regionali dotati di risorse adeguate.

Redazione Nurse Times

Fonte: Il Sole 24 Ore

 

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