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Risk manager: una funzione “contendibile” tra professionisti

Secondo la Fnopi, presente al Forum Risk Management di Firenze, la preparazione necessaria è legata all’organizzazione e all’esperienza, non a un preciso titolo di studio

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Il risk manager non si sceglie per titolo di studio, ma, come prescrive la legge in base a una “adeguata formazione e comprovata esperienza” nell’organizzazione e nella gestione del rischio. La Federazione nazionale degli Ordini degli infermieri (Fnopi) lo sottolinea in occasione della presentazione al Forum Risk Management di Firenze dei risultati del lavoro svolto dal coordinamento delle Regioni nel corso del 2019. E lo fa dopo che alcune strutture certificative private hanno sostenuto che a essere responsabile (cioè direttore di struttura complessa) delle unità di rischio clinico debba necessariamente essere esclusivamente un medico.

La preparazione necessaria al corretto svolgimento dei compiti del risk manager, sottolinea Fnopi, è sostanzialmente rivolta ai temi dell’organizzazione, dell’analisi dei processi, di comunicazione, di formazione e, non ultima, di cambiamento culturale. Attività che spesso, nei corsi di laurea degli operatori sanitari, non sono presenti. È evidente, quindi, come la necessità di individuare le caratteristiche di un risk manager della sanità non debba essere esclusivamente ricercata nel corso di laurea svolto, ma nella formazione e nelle attività oggettive svolte, cioè “con adeguata formazione e comprovata esperienza almeno triennale nel settore”, come appunto indica la legge.

Del resto, è noto a tutti che oltre il 90% degli errori che si verificano nella sanità italiana non sono attribuibili a imperizia imprudenza o negligenza, ma piuttosto a carenze organizzative, scarsa proceduralizzazione dei processi e ridotto cambiamento culturale verso l’errore. Il rischio non varia al variare delle attività di cui è oggetto. Rimane sempre la stessa definizione: la probabilità che un processo durante il suo svolgimento o al termine, non vada così come progettato.

Il percorso prevede che, alla luce della Legge 24/2017 e dei commi 539 e 540 della Legge 208/2015, le attività previste per il gestore del rischio siano così riassumibili:

1. Attivazione dei percorsi di audit o altre   metodologie finalizzati allo studio dei processi interni e delle criticità più frequenti.
2. Segnalazione anonima del quasi-errore e analisi delle possibili attività finalizzate alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari.
3. Rilevazione del rischio di inappropriatezza nei percorsi diagnostici e terapeutici.
4. Predisposizione e attuazione di attività di sensibilizzazione e formazione continua del personale finalizzata alla prevenzione del rischio sanitario.
5. assistenza tecnica verso gli uffici legali della struttura e nelle attività di stipulazione di coperture assicurative.  

Le metodologie applicative della gestione del rischio vanno raffinate e variate al variare delle specifiche attività, ma soprattutto al variare della conoscenza e dell’applicazione dei processi che sottostanno alle attività degli operatori. In molti sostengono, a ragione, che una metodologia di riferimento per la gestione del rischio in sanità sia quella aeronautica. In molti, quindi concordano sull’aspetto organizzativo, e non su quello clinico. La stessa Legge 24 ha tolto la definizione di rischio clinico, ampliandola a quello più corretto di rischio sanitario. Sarebbe peraltro assurdo seguire solo il rischio “clinico”, e non quello assistenziale, impiantistico strutturale e organizzativo.

Pensare oggi al rischio “clinico”, sottolinea Fnopi, vuol dire non aver chiaro come si ottiene la sicurezza in sanità che tanto chiaramente ha indicato la Legge 24. Anche l’introduzione voluta nell’articolo 16, con la quale gli atti i verbali e quanto conseguente all’azione di gestione del rischio non sono utilizzabili nelle aule dei tribunali, rappresenta una chiara e nette separazione tra le attività di rischio “clinico-assistenziale”, che già fa capo alla direzione sanitaria, e quelle del rischio sanitario, che deve far capo al risk manager che, prima di una laurea in medicina, deve avere “adeguata formazione e  comprovata  esperienza” nell’organizzazione e nella gestione del rischio.

Quello che si ottiene diversificando un’attività come quella del risk manager per titolo di studio è proprio l’esatto opposto di ciò che serve in sanità: dividere, anziché unire. Secondo la Fnopi, si deve introdurre il cambiamento culturale grazie al quale ognuno ritenga che solo con l’apporto di tutti, nessuno escluso, si migliorano i processi e che ogni operatore è necessario e utile per rendere le cure più sicure. E la Federazione fa un esempio per tutti: il risk manager, direttore di struttura complessa (Irccs “Rizzoli” di Bologna, Istituto ortopedico famoso nel mondo), è un infermiere con laurea magistrale in Scienze infermieristiche.

Redazione Nurse Times

 

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