Normative

Sanzione per utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato da parte della PA, interviene la Corte Costituzionale

Alla luce della sentenza “natalizia” della Corte Costituzionale in materia di precariato pubblico, ritengo opportuno fornire il mio punto vista ed una diversa lettura rispetto a quella che in prima battuta si potrebbe fare della sentenza

Commento a sentenza n. 248 del 23/12/2018 sul precariato pubblico sanitario.

Alla luce della sentenza “natalizia” della Corte Costituzionale in materia di precariato pubblico, ritengo opportuno fornire il mio punto vista ed una diversa lettura rispetto a quella che in prima battuta si potrebbe fare della sentenza.

La Corte Costituzionale, il 23/12/2018, ha depositato la sentenza n. 248, intervenendo (definitivamente?) sulla adeguatezza delle misure preventive e sanzionatorie presenti nell’ordinamento italiano ed in grado di prevenire e sanzionare debitamente l’abuso dei contratti a termine da parte della pubblica amministrazione, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria.

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Ci si attendeva dal Giudice delle leggi una sentenza di sistema, una sentenza in grado di interpretare in modo chiaro ed inequivocabile il quadro normativo in essere, secondo una interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata. Purtroppo non è stato così. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 248/2018, ha lasciato irrisolti molti dubbi sulla reale adeguatezza delle misure interne destinate a prevenire e sanzionare gli abusi da parte della Pubblica amministrazione.

La sentenza Sciotto della Corte di giustizia depositata il 25/10/2018, esattamente due giorni prima dell’udienza pubblica che si è tenuta in Corte costituzionale sul precariato pubblico e che ha dato origine alla prefata sentenza n. 248,  ha avuto modo di affermare: “La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, e intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro perdura oltre una data precisa, non sono applicabili al settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni gli abusi constatati in tale settore.

Al punto 71 della sentenza, la Corte di giustizia individua nella conversione del contratto da determinato a indeterminato la soluzione per sanzionare debitamente l’abuso subito dal lavoratore. Nel presente caso, dal momento che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale contiene norme applicabili ai contratti di lavoro di diritto comune dirette a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato, prevedendo la conversione automatica di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato qualora il rapporto di lavoro perduri oltre una data precisa, un’applicazione di tale norma nel procedimento principale potrebbe pertanto costituire una misura preventiva di un siffatto abuso, ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro.

La Corte Costituzionale, invece, nella sentenza di cui si occupa, ha categoricamente negato la possibilità che nel settore pubblico si possa convertire giudizialmente un contratto a termine anche se ci si trova di fronte al superamento del limite massimo (36 mesi) ed al superamento di una selezione pubblica anche per soli titoli per il reclutamento di personale a tempo determinato.

È opportuno precisare e sottolineare che in sanità in questi mesi, sono stati stabilizzati migliaia di lavoratori precari perché il possesso del requisito della anzianità di servizio di 36 mesi negli ultimi 8 anni e del superamento di una selezione pubblica anche per soli titoli per il reclutamento di personale a tempo determinato, in applicazione del D.lgs. 75/2017 e dalla successiva Circolare n. 3/2017 del ministero della Funzione pubblica.

La selezione pubblica per soli titoli è stata, pertanto, ritenuta idonea alla stabilizzazione in quanto rientrante tra le procedure concorsuali pubbliche di cui agli artt. 35 e 36 del d.lgs. n. 165 in grado di rispettare i dettami costituzionali di cui all’art. 97 della Costituzione.

La Corte Costituzionale si è limitata, nella sentenza 248, a dichiarare  “non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevate, in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 4, 24, 35, primo comma, 97, quarto comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 4, punto 1, e alla clausola 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato, e all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea, dal Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza in epigrafe”, senza argomentare nel merito la questione e rinviando alle statuizioni della sentenza 5072/2016 della Corte di cassazione a Sezioni Unite e della Corte di giustizia con la sentenza Santoro C-494/16.

Al punto 9 della sentenza,infatti, la Corte Costituzionale afferma “che nelle more del giudizio incidentale è intervenuta la sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro, che si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale del Tribunale ordinario di Trapani (richiamato dal rimettente). Essa si è occupata nuovamente della misura risarcitoria e in particolare della sua entità, affermando che «La clausola 5 dell’accordo quadro […] deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità […], accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

La decisione della Corte comunitaria, quindi, secondo la Corte Costituzionale, ha sancito “… la compatibilità euronitaria delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072 − pronunciata nel giudizio nel corso del quale era intervenuta la sentenza della CGUE 7 settembre 2015, in causa C-53/04, Marrosu e Sardino − che, dopo aver ribadito il divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, ha affermato che il dipendente pubblico, a seguito della reiterazione illegittima dei contratti a termine, ha diritto al risarcimento del danno previsto dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183…”.

La Corte di giustizia al punto 52 della sentenza Santoro C-494/16, invece, ha rilevato che nella normativa nazionale esistono, oltre al danno comunitario quantificato dalla giurisprudenza nel risarcimento del danno dalle 2,5 alle 12 mensilità secondo i parametri ex art. 32, legge 183/2010, altre misure destinate a prevenire e sanzionare il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato e nello specifico:

  • l’art.36, comma 5, d.lgs. n.165/2001 il quali dispone che le amministrazioni sono tenute a recuperare, nei confronti dei dirigenti responsabili, le somme pagate ai lavoratori a titolo di risarcimento del danno sofferto a causa della violazione delle disposizioni relative al reclutamento o all’impiego, quando detta violazione sia dovuta a dolo o colpa grave;
  • l’art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001 il quale prevede che la violazione dell’assunzione nulla del lavoratore, perché priva del concorso pubblico e delle stesse condizioni eccezionali o temporanee che la possano giustificare, dovrebbe essere, presa in considerazione ai fini della valutazione dell’operato di detti dirigenti i quali, a causa della citata violazione, non potrebbero ottenere un premio di risultato;
  • l’art.36, comma 6, d.lgs. n.165/2001, prevede che le amministrazioni pubbliche che abbiano agito in violazione delle norme relative al reclutamento o all’impiego non possano procedere, a nessun titolo, ad assunzioni nei tre anni successivi a detta violazione.

La Corte Costituzionale ha avuto la straordinaria occasione (persa), in quanto sollecitata dagli avvocati difensori dei lavoratori, sia attraverso il deposito di memorie scritte, sia oralmente durante la discussione pubblica della causa in Corte Costituzionale il 23/10/2018, di chiarire con una sentenza di sistema se il risarcimento del danno individuato secondo i parametri ex art. 32, legge 183/2010, la sanzione per i dirigenti, il blocco delle assunzioni e il danno da perdita di chance siano effettivamente applicabili e quindi possano essere ritenuti idonei a rispettare il principio di effettività richiesto dalla Corte di giustizia per far rendere compatibile con la clausola 5 della direttiva 1999/70 il sistema preventivo e sanzionatorio italiano. Nessuna indicazione in merito ci è stata fornita dal Giudice delle leggi.

La Corte ha lasciato, quindi, decine di migliaia di lavoratori pubblici precari italiani, i loro avvocati e i Giudici di merito, ancora privi di risposte ai quesiti che ancora aleggiano nel dibattito dottrinale:

  • a quanto ammonta il risarcimento da perdita di chance?
  • le pubbliche amministrazione recuperano effettivamente le somme pagate ai lavoratori a titolo di risarcimento del danno sofferto a causa della violazione delle disposizioni relative al reclutamento dagli incolpevoli Dirigenti che, a causa del blocco del turnover, sono costretti a ricorrere ai contratti a tempo determinato per far funzionare la macchina amministrativa?
  • viene effettivamente applicato il blocco delle assunzioni nei tre anni successivi alla condanna per utilizzo abusivo dei contratti a tempo determinato?

In caso di assenza di una risposta affermativa ai quesiti posti, e della non quantificazione e/o effettivo riconoscimento del risarcimento chance, va dichiarata l’incompatibilità eurounitaria del sistema sanzionatorio italiano con possibile nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Una storia infinita che lascia privi di tutele effettive i lavoratori precari pubblici.

Occupiamoci ora della quantificazione del risarcimento da perdita di chance. Le Sezioni unite nella sentenza n. 14432/2017, nell’accogliere il motivo di ricorso del lavoratore legato alla mancata integrale applicazione dei principi enunciati dalle stesse Sezioni unite nella sentenza n.5072/2016 sul risarcimento per perdita di chance per la determinazione del danno da abusiva reiterazione di contratti a termine, oltre all’indennità forfetaria già liquidata in quattro mensilità della retribuzione globale, hanno precisato:

“La ‘chance’ consiste nel dimostrare la sussistenza di elevate probabilità, prossime alla certezza, di essere chiamati e quindi di ottenere l’assunzione. In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, in simili situazioni il danno conseguente alla lesione di tale ‘chance’ può essere provato, pur se solo in modo presuntivo, tramite il ricorso ad un calcolo delle probabilità che evidenzi i margini di possibile raggiungimento del risultato sperato, mentre è legittima, da parte del giudice di merito, una valutazione equitativa di tale danno, commisurata al grado di probabilità del risultato favorevole (Cass. 27 giugno 2007, n. 14820; Cass. 17 aprile 2008, n. 10111; Cass. 20 giugno 2008, n. 16877; Cass. 23 gennaio 2009, n. 1715; Cass. n. 24833 del 2015 cit.). Si è anche specificato che il giudice, ai fini del suddetto giudizio probabilistico, deve prendere in considerazione ogni elemento di valutazione e di prova ritualmente introdotto nel processo (vedi, tra le tante: Cass. 3 marzo 2010, n. 5119; Cass. 5 marzo 2012, n.3415), potendo dare rilievo anche al comportamento processuale delle parti (ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.) e, quindi, al difetto di attività di allegazione e prova dell’ente datore di lavoro, tenuto a svolgere la propria attività – nella specie di mera certazione, come si è detto – nel rispetto dei criteri di correttezza e buona fede, che sono applicabili in materia alla stregua dei principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost. e che comportano che la P.A. sia tenuta ad operare in maniera trasparente e a motivare adeguatamente le scelte che effettua, come richiede anche il rispetto del principio del giusto procedimento, che ha rilevanza costituzionale (vedi: Corte costituzionale sentenza n. 310 del 2010)”.

La Commissione europea, nella risposta alla Commissione per le Petizioni del Parlamento Ue del 30 maggio 2018, fornita sulla scorta anche della mia petizione, ha evidenziato: “La recente sentenza nella causa C-494/16 Santoro ha affrontato il problema del risarcimento e dovrebbe rendere più semplice in futuro per i lavoratori del settore pubblico vittime di un utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato ottenere, all’interno del sistema giudiziario nazionale, un risarcimento del danno derivante dalla perdita di opportunità”.

Pur dubitando decisamente che quanto affermato dalla Commissione europea possa effettivamente avvenire, possiamo ipotizzare che il risarcimento da perdita di chance consista nelle differenze retributive tra quanto si è guadagnato e quanto si sarebbe effettivamente guadagnato se il lavoratore fosse stato assunto dalla Pubblica amministrazione, oppure nel riconoscimento di tutte le retribuzioni fino all’età pensionabile ecc. Ci si potrebbe dilettare all’infinito nel trovare le soluzioni più bizzarre e creative possibili, il risultato non cambia: non troveremo mai un Tribunale che riconoscerà la perdita di chance e che sarà mai in grado di quantificarla in termini di risarcimento del danno subito.

L’unica soluzione rimasta è quella di attendere le sentenze dei Tribunali di merito (già comunque numerose) e auspicare un nuovo rinvio della questione alla Corte di giustizia. Resta nel dibattito aperto, comunque, una piccola apertura della Cassazione, che con l’ordinanza 15 ottobre 2018, n.25728, ha statuito che in materia di utilizzo abusivo dei contratti a termine e conseguenze sanzionatorie “la Corte territoriale non ha valutato se – eventualmente con una decorrenza diversa da quella della firma del primo dei contratti a termine della serie le procedure selettive superate dalla ricorrente potessero, o meno, rientrare tra le procedure concorsuali pubbliche, in base agli artt. 35 e 36 del d.lgs. n. 165, come interpretati dalla suindicata giurisprudenza, aprendo a una possibile conversione giudiziale del contratto a termine, nei limiti imposti dalla sentenza, se il lavoratore ha superato i 36 mesi ed ha superato una selezione pubblica in grado di rispettare il dettato costituzionale (cd. art. 97).

Resta il fatto che al lavoratore precario, anche stabilizzato, spetta comunque il risarcimento del danno per l’illegittima reiterazione abusiva dei contratti termine nei termini indicati dalla sentenza 5072 della Cassazione secondo le indicazioni già preannunciate nella prossima sentenza che la Corte di giustizia emetterà tra gennaio-marzo 2019 nella causa Rossato.

Al lavoratore precario pubblico non stabilizzato perché non ha avuto la “fortuna” di aver raggiunto i 36 mesi di servizio negli ultimi 8 anni alla data del 31/12/2017, non resta che osservare il sistema di ingiustizie che aleggiano nel nostro paese. Al legislatore nazionale del “Decreto Dignità” lo scettro per sanare questa ingiustizia sociale e disparità di trattamento, restituendo dignità al mondo del lavoro.

 

Dott. Pierpaolo Volpe
Esperto di precariato pubblico e contratti a termine

 

ALLEGATO 1: Corte Costituzionale – Sentenza n. 248/2018
ALLEGATO 2: Petizione 1258/2017 – Commissione
ALLEGATO 3: Comunicazione 30/05/2018 – Modeo Korgol Ludovico

 

Redazione Nurse Times

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