Informato dai colleghi, Deno aveva tenuto un diario per documentare l’evolversi dell’infezione, lenta ma letale nel 50% dei casi. Il memoriale è stato in seguito affidato dalla famiglia all’avvocato di fiducia, che ha presentato un esposto alla Procura di Vicenza. Non si tratta di un caso isolato, però. La morte del medico ha infatti portato alla luce una sorprendente storia di malasanità che investe altre città venete. Sono sei (compreso Deno), infatti, le vittime del batterio killer, accertate grazie all’autopsia e agli esami microbiologici specifici per micro batteri: quattro a Vicenza, uno a Padova e uno a Treviso. E sono addirittura 18 i pazienti infettati: tutti operati al cuore e trattati con la stessa strumentazione.
La tecnologia sotto accusa è venduta in tutto il mondo e l’allarme era già scattato in altri Paesi nel 2011. Alla fine del 2015 la stessa Liva Nova ne aveva raccomandato la sanificazione, senza tuttavia ritirarla dal mercato. Lo scorso 20 settembre il ministero della Salute ha chiesto a tutte le Regioni di avviare un’analisi retrospettiva per individuare tutti i soggetti infettati da Mycobacterium Chimaera tra il 2010 e il 2018. Un mese dopo, la Regione Veneto ha istituito un gruppo di lavoro composto da esperti di malattie infettive, cardiochirurgia, rischio clinico e microbiologia per elaborare il “Documento di indirizzo per la prevenzione e la gestione delle infezioni da micobatterio Chimaera, associate a interventi chirurgici con utilizzo dei dispositivi di riscaldamento/raffreddamento del sangue”.
Si tratta delle prime linee guida elaborate in Italia per cercare di arginare la circolazione del batterio, che si annida nel serbatoio d’acqua interno al macchinario e, attraverso l’aria, si trasferisce al paziente. Non uccide subito: il tempo di latenza tra l’esposizione e l’eventuale insorgenza dei sintomi (nel 50% dei casi) varia tra uno e cinque anni. Ecco perché Demo è morto due anni dopo l’intervento. I sintomi sono febbre, sudorazioni notturne e deperimento organico, protratti per oltre due settimane e non legati ad altre patologie.
Il ministero della Salute ha messo ulteriormente all’erta le Regioni, rivelando che il macchinario risulta infetto ab origine, cioè sin dalla costruzione in fabbrica, e che è dunque inutile sostituirlo. L’Azienda ospedaliera di Verona ha evitato vittime perché non l’ha mai comprato dalla Sorin, bensì da un’altra ditta, alla quale si è rivolta anche l’Usl Vicenza a metà 2016, quando ha deciso di dismettere il proprio. Padova, Mestre e Treviso, invece, lo utilizzano ancora, pur lasciandolo fuori dalla sala operatoria, lontana dal malato e collegato con un tubo lungo fino a cinque metri, oltre i quali il funzionamento non è garantito.
Redazione Nurse Times
Fonte: www.corriere.it
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