Coronavirus, la testimonianza di un’infermiera da Cesena: “Non si stacca mai la spina”

Rilanciamo l’intervista rilasciata dalla collega Olimpia Maria Giunti al portale Cesena Today.

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Olimpia Maria Giunti, 40 anni, da 12 è infermiera nel reparto di Medicina interna dell’ospedale “Bufalini” di Cesena, recentemente trasformato in reparto Covid. Anche lei è stata chiamata “in trincea”,  e non si è certo tirata indietro.

Come è cambiata la sua vita?
“Devo dire che è cambiata molto in fretta, perchè in pochissimo tempo il mio reparto si è trasformato in un reparto ‘rosso’, cioè deputato ad accogliere i malati Covid acuti. I turni e tutta l’organizzazione del lavoro sono stati stravolti. Il senso del dovere ha subito prevalso sulla paura e sul timore di essere contagiati. Dopo mesi, però, si inizia a sentire la fatica vera, lo stress. Il primo pensiero è sempre quello di lavorare in sicurezza”.

L’emergenza Covid-19 ha cambiato il rapporto tra infermiere e paziente?
“Un paziente Covid è un paziente solo, che non può avere la vicinanza dei propri cari. Ha bisogno non solo dell’assistenza sanitaria, ma anche di un sostegno emotivo. Purtroppo manca il linguaggio non verbale. Come un sorriso, che non può vedere, o una carezza che non può ricevere”.

Quali protezioni deve indossare ogni giorno per proteggersi?
“Ogni giorno la vestizione è un rito, siamo praticamente bardati. Indossiamo il camice protettivo, cuffie, guanti, mascherina, occhiali e visiera. E’ come stare in una bolla, c’è bisogno di uno sforzo maggiore per fare azioni che sarebbero molto meno faticose. Ovviamente i pazienti fanno una gran fatica a riconoscerci, ma noi siamo l’unico contatto umano che possono avere”.

Un caso particolarmente toccante a livello umano?
“Non riesco a indicarne uno in particolare. La cosa più toccante è quando ci sentiamo impotenti di fronte alla malattia, perchè ancora non c’è una cura che sconfigge il virus. La morte dei pazienti Covid è la cosa che colpisce di più a livello umano. Si può morire in una stanza di ospedale, ma raramente si muore soli”.

Siete sotto stress da mesi. Il momento più difficile di questa emergenza?
“Oltre ai turni di lavoro massacranti, la difficoltà principale è stare lontani dalla famiglia. Non si riesce a staccare la spina. Quando sei a casa, dopo il turno, vorresti stare in ospedale a dare una mano. Il timore di contagiare i famigliari è forte. Questo ci obbliga a un isolamento fisico e affettivo che dura ormai da diversi mesi”.

Cosa pensa dell’appellativo “eroi”?
“Si parla spesso di noi come di ‘eroi’, e indubbiamente fa piacere. Ma devo dire che attorno alla nostra professione non mancano i luoghi comuni che ci additavano, ad esempio, come ‘fannulloni’ prima di questa emergenza. Io penso che questa professione non puoi farla se non hai una preparazione scientifica, ma fondamentale è la passione e la propensione ad aiutare gli altri”.

Vi aspettatate qualcosa, come professione, quando l’emergenza sarà finita?
“Ci aspettiamo in primis che tutto il lavoro che stanno facendo le figure sanitarie non sia vano. E’ facile apprezzare il nostro lavoro ora. Spero che quando l’emergenza sarà finita non si spengano i riflettori”.

La fase più acuta dell’emergenza è davvero alle spalle?
“Vedendo i dati dei contagi sembra di sì. Questo non solo grazie al lavoro del sistema sanitario, ma anche grazie ai sacrifici fatti dagli italiani. Non è però ancora il momento di abbassare la guardia”.

Redazione Nurse Times

Fonte: Cesena Today

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